Una lotteria, una roulette, un gratta e vinci. Da qualche tempo a questa parte, nei primi giorni di settembre, insieme alla vendemmia, si celebra il rito dei test universitari. Beati i primi, perché agli ultimi saranno riservati i posti di serie B, recita un mantra di moda. Ma è proprio così? All’eccitazione dei neo-maturi e delle loro famiglie si accompagnano gli anatemi di vecchi professori e scafati professionisti di successo, che tuonano contro le prove di accesso all’università. Scendono in campo primari e soloni che delegittimano i test e, accarezzando il proprio narcisismo, simulano le risposte, dichiarando che loro stessi, famosi luminari, ne uscirebbero sonoramente bocciati. Un’orgia di banalità, dentro la quale si nascondono i problemi dell’università, il valore del sapere e il futuro delle professioni e del lavoro dei giovani. Sicuramente a guadagnarci sono alcuni editori specializzati e i promotori di corsi di preparazione ai test, un business di decine di milioni di euro reso possibile da un mercato che copre, del tutto legittimamente, le falle del sistema universitario.
Sono migliaia i corsi a numero chiuso e programmato e decine di migliaia i giovani coinvolti, quasi 100 mila solo a Medicina, in un rapporto di otto-nove candidati per un posto.
Il primo vizio che emerge dai test è il sapore nozionistico, un vago odor di muffa, una riproposizione di vecchi esami di maturità, con trucchi e trabocchetti utili a fare vittime più che a valutare attitudini e conoscenze. Nella cosiddetta parte culturale i test sembrano delegittimare gli esami di maturità appena superati, svelando una latente vena di sadismo pedagogico. Ma c’è di più. I test cercano di misurare le attitudini, ma non valutano per nulla le motivazioni; cercano di bruciare la lentezza nelle prove logiche e matematiche, ma non indagano sulle propensioni. Restano quindi ampie aree di miglioramento, ma è la logica che sottende i test a marcarne una malinconica impotenza. Più che l’apprendimento, i test dovrebbero misurare la capacità di apprendere, la propensione e la motivazione a «imparare a imparare», a cui si dovrebbe accompagnare, per gli insegnanti, non solo la capacità di insegnare ma quella di «insegnare a imparare».
Più che figli del merito e strumenti della meritocrazia, invece, i test sembrano figli degeneri della cultura nozionistica che pervade scuola e università e la punta dell’iceberg del fallimento delle politiche di orientamento, scolastico e professionale. Sembrano una barriera, fragile e spesso iniqua, che cerca di rappezzare cinque anni di studi superiori senza orientamento. E’ in quegli anni che devono essere sviluppate valutazioni, misurate attitudini, verificate motivazioni, infittiti dialoghi e offerte indicazioni dalla scuola verso i propri talenti. E’ in quel quinquennio che si fondano le relazioni di aiuto e di apprendimento dei giovani e si costruiscono le vocazioni. E’ su quei percorsi assenti, su quelle occasioni mancate che si infrangono i test e la loro sottocultura. L’università ci mette poi del proprio. La definizione dei numeri chiusi, centralizzati e locali, sembra più rispondere a esigenze organizzative e contabili che a valutazioni di mercato e a fabbisogni effettivamente misurati. Qui si rivela drammaticamente l’ambiguità tra autonomia delle singole università e necessità di fare sistema. E ognuno si salva come può. In una fase di riduzioni e tagli dei finanziamenti alle università ogni ateneo e ogni rettore e preside cerca di programmare i flussi sulla scarsità di risorse e tende a chiudere i rubinetti più che ad aprire varchi che non è sicuro che verranno colmati. Ma l’università con i fichi secchi non si può fare. E anche il dispendioso rito dei test conferma che il re è nudo e ha la vista corta. Quella che qui si rivela, fin dalla progettazione e nella somministrazione dei test, è la mancanza di una bussola forte, che guidi la transizione verso la ricostruzione del capitale umano. Mentre sullo sfondo campeggia il convitato di pietra, il grande assente, di cui scuola e università non possono fare a meno: il mercato del lavoro, percepito più come bestia nera che fonte di opportunità e di sviluppo per tutti.
La Stampa 04.09.12
Pubblicato il 4 Settembre 2012