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"Così l'industria sarda ha smarrito il suo orizzonte", di Giacomo Mameli

In tour elettorale per le regionali Silvio Berlusconi lascia Palazzo Chigi e piomba nel Sud dell’isola che ribolle di rabbia. Il polo metallurgico di Portovesme è in agonia, Iglesias non sa più che cosa sia il lavoro produttivo, Carbonia è in apnea. Buio pesto per Ila e Rockwall, Alcoa in stand by, l’Eurallumina passata ai russi della Rusal sta per chiudere i cancelli. Agli operai B. promette il “massimo impegno” perché “chiamo subito il mio amico Putin e la fabbrica incrementerà i volumi di produzione e avrete il lavoro”. I sardi credono alla patacca. Ricompensano B. dandogli un carrettata di voti. Ma da Mosca arriva un niet grande quanto gli Urali. Oggi, dopo quattro anni di governo di centrodestra sostenuto da sedicenti sardisti, la Sardegna è in coma. Ha perso 42 mila posti di lavoro, “18mila nella sola industria”, come rimarca il leader della Cgil Enzo Costa. Dal Golfo degli Angeli all’Asinara si assiste sgomenti alla necrosi del tessuto produttivo, quello che aveva fatto uscire la Sardegna dal Medioevo. E si mette una pietra tombale sulla vocazione industriale del Sulcis Iglesiente dove nessuno è riuscito a garantire alcun tipo di prospettiva a una zona che ha il più alto tasso di disoccupazione nella Ue con quella giovanile che svetta al 47 per cento. Chiusa l’epopea mineraria (dalla fine dell’800 aveva rappresentato il laboratorio tecnologico nella trasformazione metallurgica) il Sulcis doveva diventare il banco di prova della verticalizzazione dei metalli in un’Italia secondo Paese industrializzato d’Europa. Nacque l’Efim, ente legato alle Partecipazioni statali con targa socialdemocratica. Se con le miniere si erano persi 18 mila posti di lavoro, col polo metallurgico se ne potevano creare seimila con l’alluminio. Ma le capacità innovative dei manager di Stato politicizzati al midollo erano ridotte a zero. Molto inquinamento e nessuna iniziativa in innovazione tecnologica a difesa di un ambiente dove era stata sepolta l’agricoltura. E così dopo anni di contributi a gogò, dopo assunzioni clientelari, di incapacità totale di gareggiare con i competitor francesi e i tedeschi, non poteva che giungere il tramonto. Viaggiare oggi fra le città-mito di Iglesias e Carbonia equivale a voler percorrere un deserto di ciminiere spente, in un contesto sociale dove regnano la disperazione perché dicono gli operai Alcoa “non abbiamo più un orizzonte”. La catastrofe dell’industria minero-metallurgica si accompagna alla totale scomparsa della chimica e del tessile dal resto della Sardegna. Era decollata negli anni ’60 più in risposta a un banditismo feroce e spavaldo (sequestri di persona e catene di faide nello scacchiere caldissimo della Barbagia) che a un disegno di politica industriale. Si doveva arginare l’emigrazione che stava svuotando paesi e città in una regione che era solo pastorizia, agricoltura di risulta e basso commercio. Furono le assemblee, anche le rivolte popolari a pretendere l’industria, caparbiamente, per “avere il lavoro in casa non Oltremare, per non sopravvivere solo di pecore e patate”. Anche in quella fase le patacche politiche dilagavano durante ogni elezione con promesse di un Eldorado di buste paga. Si invocava pomposamente il New Deal dei nuraghi. Flaminio Piccoli, ministro delle Partecipazioni statali dal ’70 al ’72, sparò novemila posti di lavoro nel Nuorese con fabbriche non solo a Ottana ma a Siniscola, Isili, Macomer, perfino a Bitti, sui monti, a oltre mille metri di quota (qui, con tre milioni di pecore brucanti, la follia politica romana e sarda immaginò la trasformazione della lana del Camerun). Una classe sindacale responsabile vide il vuoto progettuale e disse no al raddoppio nella Media Valle del Tirso o al decollo di un impianto nel Sarcidano, a valle di una colonia penale. “Era evidente anche ai miopi che l’Italia, con Acerra, Priolo, Marghera, la Sir, l’Enfi, la Montefibre e la Snia si avviava a un surplus di capacità produttiva ingestibile con produzioni di scarto”, ricorda Pietro Vitzizzai, ingegnere, leader-mito del consiglio di fabbrica negli anni di avvio degli impianti. “Nessun manager privato o di Stato si misurava con la parola qualità”. Eppure proprio le ciminiere di Ottana avevano contribuito a mitigare il malessere sotto il Gennargentu. La stagione industriale aveva scardinato la solitudine dell’ovile facendo conoscere le assemblee, la contrattazione collettiva serviva a curare l’esasperato individualismo sardo. Nascevano villaggio dopo villaggio i club culturali, le biblioteche. Era davvero stagione di rinascita. Si formò una classe amministrativa di spessore con sindaci-operai che avviavano la ripresa nei paesi attorno alla fabbrica. Il sociologo Gianfranco Bottazzi poteva titolare un libro Cuec sulla Sardegna: “Eppur si muove”. Fu una stagione breve. Perché mancava il progetto industriale. La trasformazione del petrolio (“è un olio, unge” diceva Pietro Melis, ex assessore sardista-doc all’Industria) diventò Tangentopoli. In Germania, Francia, Svizzera si consolidava la farmaceutica, la chimica fine, la biomedicina. Ma l’Italia non era quasi in grado di sfornare piatti e bicchieri di plastica. Perché non si è mai investito in ricerca, in ambiente. E così anche nelle classi dirigenti, anche fra gli intellettuali è montata una ribellione antindustriale che ha causato danni devastanti. Ilva e Alcoa docent. Ma dell’industria l’Italia della grande disoccupazione ha di nuovo bisogno. Oggi come ieri. In quattro anni l’economia dell’isola ha perso 42mila posti di lavoro Il centrodestra ha fatto solo promesse elettorali: Berlusconi si affidò all’amico Putin…
L’Unità 02.09.12