Ho ancora nel mio cuore e nei miei pensieri l’immagine di Carlo Maria Martini mentre il popolo sfila davanti al suo feretro e gremisce il Duomo e la grande piazza di Milano dove per tanti anni esercitò la sua missione di Vescovo. Se n’è andato un padre che poteva anche essere un Papa alla guida della Chiesa in tempi così procellosi? No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell’incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. «Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita». Così diceva e così faceva.
È morto nel pomeriggio di venerdì, i medici l’avevano già sedato, ma la mattina di giovedì aveva ancora celebrato la messa e mormorato dentro di sé il Vangelo perché la voce era del tutto scomparsa, le mani non reggevano più neppure l’ostia e non deglutiva. Ma la mente era vigile, la fede intatta e lui sorretto davanti all’altare ne era la prova vivente.
Pochi giorni prima aveva risposto ad un suo confratello che gli chiedeva quale fosse lo stato della Chiesa: «C’è ancora una brace ardente nel braciere, ma lo strato di cenere che la ricopre ha un tale spessore che rischia di spegnerla del tutto. Perciò bisogna disperdere quella cenere perché il fuoco torni a riaccendersi».
Chi l’ha seguito condividendone la fede dovrà ora impegnarsi a disperdere quella cenere ma dubito molto che si riesca.
Chi ne ha apprezzato il coraggio e la modernità di pensiero dovrà farne uso per evitare che la modernità si incanaglisca nello schiamazzo e si impantani negli egoismi e nella palude dell’indifferenza.
Questo è il tema che oggi voglio affrontare. Lo dedico a lui per la sua lotta contro tutte le simonie. Quella lotta è anche la nostra e la sua immagine
ci incita a restarle fedele.
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Noi viviamo in un Paese arrabbiato, in un continente arrabbiato, in un mondo arrabbiato. Questa situazione non è normale. La rabbia sociale è un elemento permanente in ogni epoca perché in ogni epoca ci sono ingiustizie, invidie, rancori. Ma non dovunque, non in tutto il pianeta contemporaneamente. Questo invece sta accadendo. C’è rabbia in Siria, in Iran, in Palestina, in tutto il continente africano dal nord al sud e dall’est all’ovest; c’è rabbia in Russia, in Ucraina, in Cina, in Giappone, nelle Filippine. E in tutti i Paesi di antica opulenza, oggi in crisi, in perdita di velocità e costretti a darsi carico delle rabbie altrui e delle proprie.
La rabbia sociale accresce gli egoismi e ottunde la consapevolezza. Chi odia è posseduto da nevrosi di gelosa invidia e da istinti distruttivi. Chi odia vuole distruggere. La rabbia divide e al tempo stesso unisce, gli individui arrabbiati diventano folla, la folla è una forza anonima sensibilissima alle emozioni che evocano i demagoghi.
La demagogia è il climax ideale di questa fase e di solito – così insegna la storia – non ha altro sbocco se non la perdita della libertà. I demagoghi lo sanno ma rimuovono questo pericolo confidando nel loro virtuosismo di trattenere le folle agganciate al loro precario carisma.
Rabbie sociali, folle emotive, demagoghi che cavalcano quelle emozioni e ne diventano le icone; poi quelle stesse folle applaudiranno e isseranno sulle loro spalle i dittatori che imbavaglieranno le loro bocche e li legheranno alla catena della servitù.
La storia è gremita di esempi, ma noi ne abbiamo avuti in casa di recenti. L’arma di cui si servono sia i demagoghi sia i dittatori, che spesso sono le stesse persone e coprono gli stessi interessi, è la semplificazione. Le folle non sopportano i ragionamenti complessi, vogliono risposte immediate, vogliono emozioni forti, vogliono il nemico da abbattere, il traditore da linciare, il bersaglio sul quale concentrare i colpi.
I Paesi di antica democrazia possiedono anticorpi robusti che riescono di solito a contenere e a vincere il virus demagogico. Ma noi italiani non viviamo in un Paese di antica e solida democrazia.
La democrazia ha come condizione preliminare l’esistenza dello Stato. L’Italia ha uno Stato, creato appena 150 anni fa, che la maggioranza degli italiani non ha mai amato. Non lo amò quando nacque, si ribellò contro di esso tutte le volte che poté. Il fascismo nacque da una ribellione contro lo Stato che nasceva da sinistra e fu utilizzata dalla destra. Ne venne fuori lo Stato totalitario, cioè la negazione della democrazia.
Poi la democrazia arrivò, frutto delle catastrofi della guerra, ma quanto fragile! Basta una spinta, basta un buon venditore di slogan, basta una dose di antipolitica per ammaccarla e mandarla in pezzi.
Il procuratore generale dell’antimafia ha detto l’altro giorno che «menti finissime sono al lavoro per colpire le Procure e il capo dello Stato». Può darsi che sia così, ma non credo ci vogliano menti finissime. In un Paese nel quale alligna la furbizia e il disprezzo delle regole, basta una ciurma di demagoghi da strapazzo per provocare un incendio. I piromani mandano a fuoco ogni estate decine di migliaia di ettari di bosco e
ancora non si è capito il perché.
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I focolai dell’incendio sono numerosi ma il più esteso deriva dal fatto che l’economia europea è da un anno in recessione e ci resterà per un altro anno ancora. Noi siamo purtroppo in testa a questa classifica per una ragione evidente: siamo in coda nel tasso di produttività, di crescita e di investimenti; per di più abbiamo accumulato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.
Responsabilità? Generali. La politica ne ha molte perché ha sempre preferito guardare all’oggi anziché al domani; una responsabilità non minore ce l’hanno il capitalismo italiano, le lobby, le clientele. Anche i sindacati, forse un po’ meno di altri ma comunque non trascurabili: hanno difeso più il posto di lavoro che il lavoro, favorendo in questo modo l’ingessatura del sistema produttivo e rendendo difficile la mobilità sociale. Questo non è un errore da poco, caro Landini.
Adesso molti di questi nodi sono arrivati al pettine e i sacrifici sono diventati necessari. Ma i sacrifici non piacciono a nessuno e scatenano la rabbia sociale. «Vengono colpiti i soliti noti». In gran parte è vero ma bisognerebbe anche capire che mille euro tolti a 20 milioni di persone
dovrebbero salire a duecentomila euro se le persone fossero soltanto centomila di numero. Gli evasori ovviamente sono infinitamente di più e per quanto li riguarda il problema è la loro rintracciabilità.
Comunque: i sacrifici non piacciono a nessuno ed è quindi normale che creino disagio, in certi casi anche molto acuto. Poi ci sono focolai di incendio più ristretti nella loro estensione ma molto più intensi.
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Uno di questi è certamente l’Alcoa che gestisce le miniere sarde di carbone allo zolfo. Quelle miniere – lo ricorda Alessandro Penati su la Repubblicadi ieri – furono aperte a metà dell’Ottocento. Poi furono chiuse perché il carbone di quella qualità non aveva mercato e la sua produzione era antieconomica. Ma poiché in quella zona della Sardegna non c’erano altre risorse per creare lavoro, la sequenza di aperture, chiusure e riaperture delle miniere fu continua ed è durata fino ad oggi passando dallo Stato all’Iri, all’Enel, all’Eni. Infine anche l’Eni chiuse perché il carbone allo zolfo non lo comprava nessuno.
Lo Stato però riuscì a vendere le miniere alla società canadese Alcoa che produce alluminio ed ha bisogno di carbone. Il costo di quello del Sulcis era fuori mercato e l’Alcoa accettò il contratto solo se lo Stato gli avesse fornito l’energia elettrica necessaria alla produzione di alluminio a prezzo sussidiato. Il contratto è durato 15 anni, il sussidio è stato pagato da ciascuno di noi nella bolletta dell’energia elettrica. Adesso è scaduto e lo Stato non lo ha rinnovato, per cui l’Alcoa se ne va salvo nuove trattative per nuove soluzioni.
La rabbia dei cinquecento minatori si è almeno in parte placata dopo l’annuncio dato dal ministro Passera a trecento metri di profondità e forse una soluzione sta per essere trovata.
È invece ancora in altissimo mare la questione dell’Ilva di Taranto. La riassumo con le parole del giovane attore Riondino che è uno degli esponenti nel movimento di protesta tarantino: «I lavoratori dell’Ilva, compreso l’indotto, sono diciottomila. Diciamo pure che considerando il sub-indotto arrivino a trentamila. Sono molti e la chiusura dell’azienda per loro è una catastrofe. Ma la popolazione di Taranto, compresi quei trentamila lavoratori, è di 186 mila abitanti, tutti quanti, bambini e neonati compresi, respirano polvere di carbone dalla mattina alla sera: un’incubazione che passa da una generazione all’altra e che mette Taranto al più alto livello di tumori delle vie respiratorie».
Questo è il problema. La rabbia dei lavoratori si somma a quella di tutti gli abitanti per due ragioni diverse anzi opposte: il lavoro e la salute. I sindacati e le parti politiche di riferimento vorrebbero conciliare le due cose, ma ci vuole molto tempo e moltissimi soldi che lo Stato non ha. E quindi la rabbia infuria. Di esempi analoghi c’è una lista lunghissima. Ciascuno produce rabbia. I motivi, le cause, le responsabilità sono diversi, ma tutto si unifica. Agitate con energia e il cocktail è pronto.
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Tanti fiumi più o meno fangosi si uniscono a valle in un solo grande fiume e un solo delta, ma quel delta diventa palude perché manca – vedi caso – la liquidità.
Nel caso specifico la liquidità è Draghi che dovrebbe darla e a quanto risulta sembra deciso a farlo. Darà battaglia il 6 prossimo al Consiglio direttivo della Bce e aspetterà il 12 la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul fondo salva-Stati. Poi si muoverà. Forse, per superare l’opposizione della Bundesbank, chiederà l’ok dell’Ue e Monti dovrà fare in modo di farglielo avere impegnandosi ad un calendario rigoroso per attuare iniziative già approvate dal Parlamento che attendono però i decreti attuativi.
L’intervento di Draghi sarà della massima importanza per uscire dal pantano, mitigare le rabbie, depotenziare i demagoghi e consentire che Monti porti a termine il suo lavoro con l’appoggio indispensabile del presidente della Repubblica, senza il quale saremmo da un pezzo finiti nell’immondezzaio dell’Europa.
Ma è anche necessario uno sfondo politico per un’Europa politica. Ci sarà?
Il cardinale Martini si occupò anche di questo problema e lo espose con parole chiarissime dinanzi al Parlamento di Strasburgo dove fu invitato a parlare nel 1997. Trascrivo le sue parole a chiusura di questo articolo che ho a lui dedicato.
«L’Europa si trova dinanzi a un bivio decisivo della sua storia. Da un lato si apre la strada d’una più stretta integrazione politica che coinvolga i popoli europei e le loro istituzioni. Dall’altro ci può essere un arresto del processo di unificazione o una sua riduzione solo da alcuni aspetti economici e limitatamente ad alcuni Paesi».
Questo è il dilemma: la nascita d’una vera Europa in un mondo globale o la sua irrilevanza politica e storica. Gli italiani responsabili non possono essere indifferenti di fronte a questo dilemma.
La Repubblica 02.09.12
Pubblicato il 2 Settembre 2012