L’idea di punta è «On stage», passerella dei migliori dieci «stilisti emergenti» a livello internazionale: una spruzzata di novità per non pensare troppo alla crisi del settore. Ma anche a Milano Unica, il salone del tessile che si apre oggi – presente Silvio Berlusconi – i numeri sono crudeli: 486 espositori (382 italiani e 98 da altri paesi europei) con un calo del 25 per cento. E anche se la diminuzione si è attenuata tra l’esposizione di febbraio e l’odierna («solo» un meno 10%) basta girarsi intorno nella regione ospitante per capire cosa sta succedendo. «Ventotto aziende chiuse, 749 in crisi, oltre 29mila lavoratori in cassa integrazione e mobilità»: questi i dati snocciolati dalla Femca-Cisl della Lombardia. Che, più nel dettaglio, specifica: «Il 70% per cento dei lavoratori in cassa è attualmente sospeso dall’incarico. I territori più colpiti sono Como (6.600 lavoratori sospesi), Varese (2.700), Bergamo (1.600)». Cioè i distretti della seta, oppure la Val Seriana chiamata un tempo «la valle dell’oro» per il valore dei suoi filati e soprannominata adesso, da chi ci vive, «la valle dell’orfano» per il lavoro che si è perduto.
Difficile allora stupirsi di quel quarto di aziende «scomparse» dalla Fiera di Milano. Quelle stesse aziende – prevalentemente piccole, di nicchia – che sono scomparse o rischiano di scomparire del tutto, non solo da una rassegna. Lo spiegano gli stessi organizzatori di «Milano Unica»: «I grossi marchi ci sono tutti, ma per altri produttori è molto più difficile. La crisi li costringe a risparmiare al massimo; e la partecipazione a una fiera costa. Così rinunciano del tutto, oppure scelgono quella che sembra più interessante per il loro mercato».
E’ successo così per i produttori di Prato, ad esempio (dalla Toscana a Milano sono arrivati in tutto soltanto 53 espositori): hanno organizzato una Fiera locale e poi hanno scelto Parigi, sperando che sia una vetrina più proficua. C’è bisogno di “tirarsi su” visto che nel 2008 il 72% delle aziende pratesi ha visto una diminuzione del proprio fatturato, per qualcuna accettabile, per altre drammatica con pesanti ripercussioni occupazionali.
Da qualsiasi lato lo si guardi, il settore tessile fornisce numeri impietosi. Il centro studi di Sistema moda Italia (Smi), la federazione delle aziende tessili e abbigliamento, ha analizzato il settore filati: nel 2008 il fatturato è calato del 10%, la produzione del 13% e l’export del 17%; nel primo trimestre di quest’anno è andata anche peggio: il fatturato dà un meno 22%. Il settore abbigliamento è andato un po’ meglio nel 2008 (meno 3% il fatturato), ma quest’anno si è allineato al ribasso: meno 15%.
Visto dalla parte dei lavoratori Valeria Fedeli, segretaria nazionale della Filtea-Cgil la sintetizza così: «Quest’anno rischiano il posto 60-80 mila addetti». Cioè quasi il dieci per cento delle 750mila persone che nel nostro paese si occupano di filar tessuti, cucire vestiti, lavorar la pelle. E spiega che a essere colpite saranno sopratutto «quelle centinaia di aziende, medie o piccole, contoterziste». Cioè quelle che vengono impiegate dai grandi marchi per lavorazioni spesso di altissima qualità: «In sostanza – dice Fedeli – l’ossatura della filiera del made in Italy».
La dirigente sindacale ricorda come il tessile sia, dopo la meccanica, la seconda industria manifatturiera del nostro paese, che dà un impulso senza pari all’esportazione e a migliaia di attività commerciali, «ed è anche il primo acquirente dell’industria chimica». Spezzare uno o più anelli di questa catena produttiva – e con cali di fatturato che per certe aziende sono del 40-60% non è difficile – può portare a ripercussioni imprevedibili. «Vedo che a “Unica” ci sarà Berlusconi. Era ora – osserva – sono mesi che tutti noi, rappresentanti dei lavoratori e delle aziende insieme, gli chiediamo un incontro. Non ci ha mai risposto.
La Stampa, 8 settembre 2009