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L’offensiva dei troppo «corretti», di Paolo Mieli

presepe

L’editoriale di Paolo Mieli per il Corriere della Sera del 04 gennaio 2016.

La Spagna, che (sia detto per inciso) non è ancora riuscita a darsi un governo, tra due giorni sarà politicamente compensata da una straordinaria novità. La sindaca di Madrid, Manuela Carmena, eletta a maggio con l’appoggio di Podemos – reduce dall’aver vinto battaglie per il ridimensionamento del presepe nel Palacio de Cibeles e per la celebrazione del Natale multietnico con tamburi africani, poesia serba e musica palestinese – ha ottenuto che la sera del 5 gennaio debuttino i Re Magi donna. Come Conchita Wurst o Annie Girardot nel celeberrimo film di Marco Ferreri, Gaspare e Melchiorre saranno – nelle sfilate di Puente de Vallecas e Sans Blas-Canillejas – reinas magas con tanto di barba (Baldassarre no, perché è nero e farlo impersonare da una donna barbuta deve essere sembrato eccessivo). La sindaca madrilena gioisce in questi primi giorni del 2016 per i suoi personali trionfi che ne fanno un’eroina della guerra mondiale combattuta sotto le insegne del «politicamente corretto».

Già, perché in Spagna il presepe non viene soppresso per andare incontro a bambini di altre religioni (i quali, peraltro, né direttamente, né attraverso madri e padri, hanno mai chiesto di adottare questo tipo di misure). A Madrid non c’è motivo perché, come è accaduto da noi, un Matteo Salvini si presenti con mantello e turbante all’asilo di sua figlia: Cristianesimo e Islam non c’entrano; Manuela Carmena si è spesa esclusivamente per un’Epifania che contemplasse «un rapporto più equilibrato tra uomini e donne».

Va riconosciuto che da questo momento per il resto d’Europa (e del mondo intero) sarà arduo competere con questa apoteosi madrilena della correttezza politica. Certo, in anni recenti, altrove abbiamo assistito ad altri trionfi di questa inarrestabile offensiva: sono finiti sotto processo libretti di opere di Mozart, testi di Dante Alighieri, William Shakespeare, Herman Melville, Joseph Conrad. Il capitano Achab è stato messo all’indice in alcune università statunitensi perché «portatore di un atteggiamento sconveniente nei confronti delle balene». Lo scrittore nigeriano Chinua Achebe ha proposto la messa al bando di «Cuore di tenebra» in quanto «sprezzante nei confronti degli africani». La Columbia University ha aperto un contenzioso su Ovidio e sul «contenuto troppo violento» delle sue «Metamorfosi» che peraltro conterrebbero «scene erotiche tali da provocare traumi nei giovani lettori». Francis Scott Fitzgerald ha avuto, per così dire, seri problemi all’ateneo di Yale dove agli studenti è stato vietato di indossare una maglietta con una frase dell’autore del «Grande Gatsby» («Penso a tutti gli uomini di Harvard come a delle femminucce») considerata alla stregua di un «insulto omofobo». Ian McEwan ha denunciato inorridito le minacce subite dal poeta Craig Rane per alcuni versi sulle fantasie erotiche di un vecchio. Persino Andrea Camilleri ha avuto i suoi guai allorché la commissaria europea alla pesca, Marta Damanaki, gli ha intimato di vietare a Montalbano di indulgere all’abitudine, «inaccettabile nel Mediterraneo», di cibarsi di pescetti. E credo che lo scrittore si sia adeguato togliendo dai suoi racconti ogni cenno al novellame.

Potente è stata anche la carica contro i classici cinematografici. Il New York Post si è schierato per la censura di «Via col vento», quantomeno per il taglio di qualche scena del personaggio di Mami, interpretando il quale Hattie McDaniel fu la prima afroamericana a vincere l’Oscar. Visto che c’era, lo stesso giornale ha chiesto fosse tolta l’immagine di una domestica nera che campeggiava dal 1889 sulle confezioni di sciroppo da plumcake «Aunt Jemima» e quella del cameriere nero sul riso «Uncle Ben’s». Non sono stati risparmiati neanche i film di animazione. Quattro mesi fa, sulla piattaforma in streaming Netflix, lo stringatissimo racconto di «Pocahontas» è stato cambiato in fretta e furia. Già reso oscuro da un primo vaglio al setaccio del politically correct, recitava così: «Una donna indiana d’America è promessa sposa del guerriero più forte del villaggio, ma anela a qualcosa di più e incontra il capitano John Smith». Adrienne Keene, rappresentante di un’Associazione di nativi, ha obiettato che l’uso del verbo «anela» era «disgustoso». La Disney è corsa ai ripari e ha ottenuto il via libera dell’Associazione a costo di rendere quella minitrama pressoché incomprensibile: «Una giovane ragazza indiana d’America prova a seguire il suo cuore e proteggere la sua tribù, quando i coloni arrivano e minacciano la terra che ama». I produttori eredi di Walt Disney si sono piegati anche perché memori di seri problemi avuti anni fa: in primis con Paperino quando un’Associazione per la difesa del fanciullo pretese gli venisse tolto il battipanni con cui inseguiva Qui, Quo e Qua; poi con Mr. Magoo, il personaggio molto miope creato nel 1949 da John Hubley, allorché la Federazione dei non vedenti impose l’abbandono del progetto di trarne un cartone animato che avrebbe fatto «ridere sulla disabilità». Il compromesso fu raggiunto con un film di Stanley Tong (interpretato da Leslie Nielsen) in cui, però, lo spirito del fumetto andò quasi interamente perso. Da quel momento la Disney si è buttata sulla correctness più irreprensibile e pochi giorni fa ha prodotto uno spot natalizio di Frozen in cui due uomini tenevano in braccio un bambino. Ma non si può mai stare in pace. Dall’Italia i parlamentari Carlo Giovanardi e Eugenia Roccella hanno chiesto che quel filmato venisse eliminato dalla tv poiché non era chiaro chi fossero i genitori di quell’infante: «Figlio di chi? dov’è la mamma?», hanno domandato maliziosi i due rappresentanti del popolo italiano.

Qualcuno di quando in quando ha cercato di resistere al regime della correttezza. Antesignano di questi ribelli, lo scrittore Robert Hughes con un libro, «La cultura del piagnisteo» (Adelphi), che si è imposto come manifesto degli ostili a quella da lui descritta come «una sorta di Lourdes linguistica dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo». Tra i partigiani vanno annoverati l’anticipatore Saul Bellow, il cui testimone è passato a Philip Roth e poi a Martin Amis. Qui in Italia, merita una decorazione Umberto Eco che tempo fa sull’Espresso ha preso in giro l’ipercorrettezza degli antiberlusconiani suggerendo di alludere con queste parole ai problemi di statura e trapianto del loro bersaglio prediletto: «Persona verticalmente svantaggiata intesa ad ovviare a una regressione follicolare». Medaglia anche per Sergio Romano che, su queste colonne, ha lamentato la scomparsa dalla letteratura contemporanea di termini «straordinariamente espressivi» come «sciancato, storpio, orbo, zoppo, straccione, pezzente» e ha rivendicato il diritto di ripetere le parole pronunciate dal poeta messicano Francisco de Icaza al cospetto dell’Alhambra e del Palazzo della Madraza: «Nella vita non vi è pena maggiore dell’esser cieco a Granada». Sacrosanto. Anche se consideriamo una sofferenza più afflittiva dell’essere ciechi a Granada, quella di godere di una buona vista a Madrid. Quantomeno domani sera quando sfileranno le regine barbute di Manuela Carmena.