L’università italiana, oltre ad aver subito negli ultimi anni pesanti tagli finanziari come nessun altro settore pubblico, è stata inoltre imbrigliata da insostenibili vincoli burocratici. Vincoli che sono anche la causa, non ultima, della fuga all’estero di tanti giovani ricercatori. Se uno di loro ottiene un finanziamento internazionale di ricerca preferibilmente sceglie di usufruirne in un’università straniera, con il risultato che il nostro Paese perde d’un sol colpo capitale umano (il ricercatore), scientifico (i risultati della ricerca) e finanziario (i fondi di ricerca).
Nel triennio 2010-2012, senza tenere in alcun conto la forma budgetaria del finanziamento statale, sono state imposte alle università riduzioni percentuali alle spese per la formazione del personale, per le missioni, per le relazioni pubbliche e la pubblicità, per i convegni, per i contratti a tempo determinato, per le spese di manutenzione degli immobili, per l’acquisto di mobili e arredi. È stato inoltre ripristinato il controllo preventivo della Corte dei Conti su ogni incarico esterno e introdotto l’obbligo di rivolgersi a Consip e Mepa per tutti gli acquisti. Un delirio di burocrazia anche per acquistare un personal computer.
E che dire del più significativo e disastroso dei vincoli, quello sulle assunzioni di personale anche quando vi sono finanziamenti disponibili sul bilancio dell’ateneo? Un vincolo senza limiti di tempo perché, se non si interverrà per legge, anche dopo il 2018 non sarà possibile spendere per il personale più di quanto si è speso l’anno prima, indipendentemente dalla situazione finanziaria e scientifica dell’ateneo. Una follia di cui si registrano già ora gli effetti negativi e che alla lunga soffocherà l’intero sistema.
Pur senza rinunciare a trasparenza ed efficacia nella spesa, è assolutamente urgente rimuovere questi vincoli. La soluzione che sempre più spesso viene proposta è quella di far uscire le università dal diritto amministrativo. Pochi però ricordano che questa via è già percorribile. Fu il Ministro Tremonti – non a caso con il medesimo decreto-legge che ha
vincolato le assunzioni – a volere nel 2008 la norma, mai abrogata, che lascia libere le università di decidere autonomamente se trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Ma in sette anni nessuna università l’ha finora utilizzata, anche per l’incertezza che ne conseguirebbe: quale sarebbe l’impegno finanziario dello Stato nei confronti delle fondazioni universitarie e della loro funzione “costituzionale”, quale lo status del loro personale docente, quali le norme che ne regolerebbero l’attività? Un’incertezza inevitabile – e pericolosa – che deriva dalla difficile sintesi tra la natura privatistica delle fondazioni e la natura pubblica delle missioni dell’università, cioè l’insegnamento superiore e la ricerca libera.
Il mancato ricorso alla norma Tremonti dovrebbe far comprendere che non è questa la via giusta da percorrere. Semmai si dovrebbe definire per legge uno specifico profilo per le università, che ne confermi le peculiari missioni di rilievo costituzionale e consenta di includerle in uno speciale settore della pubblica amministrazione. In questo nuovo regime le disposizioni per la pubblica amministrazione si applicherebbero all’università solo per espressa previsione legislativa e sulla base di un’attenta valutazione del loro impatto sia sull’autonomia degli atenei, sia sul loro livello di competitività scientifica, nazionale e internazionale, al fine di garantire gli interessi strategici del Paese.
Mettiamo dunque al lavoro il Parlamento per liberare le università dai lacci che ne asfissiano la gestione. Sfoltiamo decisamente e razionalizziamo intelligentemente la giungla normativa che ha preso piede negli ultimi anni. Sarebbe un vero e decisivo primo passo verso la “nuova” università.
*Deputata Pd