La prima reazione del governo italiano alla morte di 73 cittadini eritrei nel Canale di Sicilia è stata di fastidio e incredulità. Per bocca del suo ministro dell’Interno, che si è ben guardato dall’esprimere cordoglio e pietà, si è gettato discredito sul racconto dei cinque sopravvissuti. Sopravvissuti che – non fossero apparsi in pericolo di vita – sarebbero stati quasi certamente respinti, nonostante il diritto internazionale assegni loro lo status di rifugiati politici. I notiziari televisivi hanno fatto da cassa di risonanza a tale ignominia, lasciando sottintendere l’insinuazione che i disperati giunti a Lampedusa dopo aver visto morire di stenti i loro congiunti, potessero avere chissà quale interesse a mentire.
Sul piano morale, una tale prova di cinismo nei confronti di vittime inermi, che non ha precedenti nella storia repubblicana, giustifica il paragone avanzato ieri da Marina Corradi su Avvenire: evoca cioè l’indifferenza di tanti europei, 65 anni fa, di fronte alla discriminazione e alla deportazione degli ebrei considerati untermensch, sottouomini. Pure allora una martellante propaganda sollecitava a distinguere fra vite degne e vite indegne.
La pietà, come la bontà, è tornata a essere, nella propaganda governativa, un lusso che non ci potremmo permettere. Il dovere assoluto del soccorso in mare rischia di procurare a chi vi ottemperi accuse di favoreggiamento del reato di immigrazione illegale. Le motovedette della Guardia di Finanza hanno ricevuto l’ordine di procedere in mezzo al mare, frettolosamente, alla selezione degli stranieri dei paesi in guerra, titolati a richiedere asilo; anche se è palese l’impossibilità di condurre a bordo le indagini accurate che sarebbero obbligatorie.
Così lo scandalo del prolungato omesso soccorso in mare, denunciato dai pochi superstiti di un’odissea lunga venti giorni, ha trovato legittimazione postuma nell’insensibilità conclamata del ministro Maroni. Assistiamo a un abbrutimento delle coscienze che produce un guasto di civiltà e disonora chi l’ha perseguito. Non è solo la dottrina evangelica a uscirne calpestata, come denuncia la Conferenza episcopale italiana, ma il più elementare senso di umanità.
Da mesi assistiamo allo spettacolo di esponenti politici che esultano per i respingimenti, quasi che ci liberassimo di scorie tossiche e non di persone bisognose. Quando un partito di governo come la Lega diffonde su Facebook un gioco di società intitolato “Rimbalza il clandestino”, festeggiando col suono di un campanello la sparizione di ogni barca di migranti, vuol dire che la velenosa ideologia dell’untermensch è di nuovo entrata a far parte del nostro senso comune.
La viltà di tale comportamento è suggellata dallo scaricabarile delle colpe su di una nazione infinitamente più piccola e meno attrezzata della nostra, qual è Malta. Crediamo forse di lavarci la coscienza addossando su la Valletta la responsabilità dei soccorsi? O non stiamo piuttosto assistendo a una lugubre replica della favola del lupo e dell’agnello?
La Libia sta giocando spregiudicatamente con la vita di migliaia di persone e con le aspettative politiche mirabolanti del governo italiano. I migranti vengono trattenuti per mesi nei suoi campi di lavoro e di prigionia; vengono sfruttati con la promessa di guadagnarsi i soldi necessari a salpare verso la sponda nord; e ora vengono di nuovo mandati allo sbaraglio in mare: perché ogni tanto bisogna pur saziare l’avidità dei trafficanti che godono di protezione all’interno del regime corrotto di Tripoli.
Rivelando che fra il 1 giugno e il 20 agosto 2009 le nostre motovedette hanno effettuato 13 interventi, prestando soccorso a 420 profughi del mare, il Viminale riconosce implicitamente che l’accordo bilaterale con la Libia, spacciato sui mass media di regime come risolutivo, è invece un colabrodo. Invece di rifugiarsi dietro al mancato sos di un gommone con 78 persone a bordo prive di strumenti di comunicazione, il ministro Maroni farebbe meglio a chiedere scusa alle persone di cui ha messo in dubbio la parola. Commettendo una bassezza morale.
Per mesi egli ha cercato di darci a bere un’altra favola, secondo cui sarebbe possibile fermare un esodo biblico dall’Africa all’Europa rinforzando la marina militare di Gheddafi. Come se potessimo ignorare che gli affamati nel mondo sono 1 miliardo e 20 milioni di persone, 100 milioni in più del 2008 (stima Fao del 19 giugno). Di questi affamati, 265 milioni vivono nell’Africa subsahariana, 42 milioni nel Vicino Oriente e nell’Africa del nord. Di fronte a una tragedia di tale portata, l’Italia ha finora reagito tagliando i fondi per la cooperazione allo sviluppo e disinteressandosi al rispetto dei diritti umani concernenti le persone che respinge.
Può capitare che per fare buoni affari petroliferi i nostri manager corrompano dei funzionari governativi, come in Nigeria; o che il fior fiore della nostra imprenditoria vada a rendere omaggio a Gheddafi sotto la tenda che un governo compiacente gli ha lasciato piantare nel parco di Villa Pamphili a Roma. Ma di progetti per lo sviluppo, per combattere la fame e le malattie, ci si riempie la bocca solo di fronte alle telecamere del G8, salvo poi dimenticarsene. Perché una cultura miope e razzista trova più conveniente assecondare l’istinto popolare. Si prendono più voti dicendo che abbiamo già troppi problemi noi per poterci interessare ai problemi di persone talmente disperate e diverse da apparirci minacciose.
da Repubblica