Se c’è una cosa su cui tutti gli americani sono d’accordo di questi tempi è la necessità di riorientare il sistema scolastico del Paese in favore dell’insegnamento di competenze tecniche, specifiche. Dal presidente Obama in giù, esponenti del governo sconsigliano di iscriversi a corsi di laurea come storia dell’arte, visti alla stregua di lussi costosi nel mondo odierno. I repubblicani vogliono spingersi molto più in là e tagliare i fondi a queste materie. «È nell’interesse vitale del Paese avere un maggior numero di antropologi?», ha detto Rick Scott, il governatore della Florida. «Non credo».
Tuttavia, questo rigetto verso un apprendimento ad ampio raggio nasce da una lettura dei fatti fondamentalmente errata e instrada l’America su una via pericolosamente stretta verso il futuro. Se gli Stati Uniti sono leader mondiali per dinamismo economico, innovazione e spirito imprenditoriale il merito è proprio di quel genere di insegnamento di cui ci dovremmo sbarazzare. Un’istruzione generale di ampio respiro contribuisce a stimolare il pensiero critico e la creatività. Venire a contatto con tanti campi di studio diversi produce sinergie e fertilizzazioni incrociate. Sì, la scienza e la tecnologia sono componenti cruciali di questa istruzione, ma anche l’inglese e la filosofia. Steve Jobs, presentando una nuova edizione dell’iPad, spiegava che «è inscritta nel Dna della Apple la consapevolezza che la tecnologia da sola non basta, che è la tecnologia coniugata alle scienze umanistiche che produce il risultato che tanto ci entusiasma ».
Per buona parte della loro storia, gli Stati Uniti sono stati gli unici a offrire un’istruzione a tutto tondo. Nel loro accurato studio intitolato The Race Between Education and Technology , i due professori di Harvard Claudia Goldin e Lawrence Katz fanno notare che nel XIX secolo Paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania istruivano solo una piccola percentuale della popolazione, con programmi di studio ristretti e concepiti per insegnare soltanto le competenze fondamentali per le rispettive professioni. L’America, invece, forniva un’istruzione generale di massa, perché le persone non erano radicate in località specifiche, con mestieri da tempo consolidati che rappresentavano gli unici sbocchi lavorativi per i giovani. E l’economia americana storicamente si è trasformata così in fretta che la natura del lavoro e i requisiti per il successo spesso non erano gli stessi da una generazione all’altra: la gente non voleva imprigionarsi in una corporazione professionale o imparare per tutta la vita un’unica competenza specifica.
Era appropriato in un’altra epoca, sostengono i «tecnologisti», ma nel mondo di oggi è pericoloso. Basta guardare i risultati dei ragazzi americani rispetto ai coetanei di altri Paesi. Il test internazionale più recente, realizzato nel 2012, ha visto gli Stati Uniti classificarsi ventisettesimi (sui 34 Stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) in matematica, ventesimi in scienza e diciassettesimi in lettura e comprensione di un testo. Facendo la media dei punteggi in queste tre materie, gli Stati Uniti si piazzano in ventunesima posizione, dietro a nazioni come la Repubblica Ceca, la Polonia, la Slovenia e l’Estonia.
Se vogliamo dirla tutta, però, gli Stati Uniti non hanno mai brillato particolarmente nei test scolastici internazionali, e questi test non sono indicatori affidabili del nostro successo in quanto nazione. Negli ultimi cinquant’anni, questo stesso Paese ha dominato il mondo della scienza, della tecnologia, della ricerca e dell’innovazione.
La stessa discrepanza si riscontra in altri due Paesi fortemente innovativi, Svezia e Israele. Ma la scarsa brillantezza nei test scolastici non è l’unica caratteristica che hanno in comune Svezia, Israele e Stati Uniti: sono tutte e tre economie flessibili; hanno una cultura del lavoro non gerarchica e basata sul merito; agiscono come Paesi giovani, con energia e dinamismo; sono società aperte, felici di accogliere le idee, i beni e i servizi del resto del mondo; e le persone hanno fiducia nei propri mezzi (una caratteristica misurabile).
Per quanto solida possa essere la sua competenza matematica e scientifica, un individuo dovrà comunque sapere come imparare, come pensare e anche come scrivere. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, insiste perché i suoi alti dirigenti scrivano promemoria, spesso anche di sei pagine stampate, e comincia le riunioni più importanti con un periodo di quiete, lungo a volte fino a trenta minuti, in cui ognuno legge mentalmente le «narrazioni» e prende appunti.
Le aziende spesso preferiscono una solida preparazione di base a una competenza qualificata ma ristretta. Andrew Bennett, consulente di management, ha condotto un sondaggio fra 100 capitani d’impresa e ha rilevato che 84 di loro dicono che preferiscono assumere persone dotate di intelligenza e passione anche se non hanno le competenze specifiche richieste dall’azienda.
Nel mondo dell’imprenditoria l’innovazione non è mai stata solo una questione di tecnologia. Prendete il caso di Facebook. Mark Zuckerberg era il classico studente di materie umanistiche che aveva anche una grande passione per l’informatica. Al liceo studiava greco antico e al college aveva scelto come prima materia psicologia. E le innovazioni apportate da Facebook hanno moltissimo a che fare con la psicologia. Zuckerberg ha sottolineato spesso che prima della creazione di Facebook la maggior parte della gente celava la propria identità su internet: la Rete era una terra di anonimato. L’intuizione di Facebook fu che era possibile creare una cultura di identità reali dove la gente si metteva volontariamente a nudo con i propri amici, e che sarebbe stata una piattaforma rivoluzionaria. Ovviamente Zuckerberg ha una profonda conoscenza dei computer e usa programmatori bravissimi per tradurre in pratica le sue idee, ma Facebook, come ha detto lui stesso, è «psicologia e sociologia oltre che tecnologia».
È il pensiero critico, in fin dei conti, il solo modo per proteggere i posti di lavoro americani. David Autor, l’economista del Mit che ha studiato a fondo l’impatto della tecnologia e della globalizzazione sul lavoro, scrive che «le mansioni umane che si sono rivelate più assoggettabili alla tecnologia sono quelle che seguono procedure esplicite e codificabili (come la moltiplicazione) dove i computer ormai sono enormemente più efficienti della manodopera umana quanto a velocità, qualità, accuratezza e risparmio. Le mansioni che si sono dimostrate più refrattarie all’automatizzazione sono quelle che richiedono flessibilità, capacità di giudizio e buon senso, le competenze che comprendiamo solo implicitamente, per esempio elaborare una teoria oppure organizzare un armadio». Nel 2013 due studiosi di Oxford hanno condotto uno studio accuratissimo sull’occupazione e sono giunti alla conclusione che i lavoratori, se vogliono evitare il rischio che le loro mansioni vengano informatizzate, «devono acquisire capacità creative e sociali».
Un ultimo motivo per attribuire importanza all’istruzione umanistica sta nelle sue radici. Per gran parte della storia umana, l’istruzione è stata fondata sulle competenze. Cacciatori, agricoltori e guerrieri insegnavano ai loro giovani a cacciare, coltivare e combattere. Ma circa 2.500 anni fa tutto questo cambiò, e cambiò in Grecia, dove si cominciò a fare esperimenti con una nuova forma di governo, la democrazia. Questa innovazione nella forma di governo esigeva un’innovazione nell’insegnamento. Le competenze di base per il sostentamento non erano più sufficienti. I cittadini dovevano imparare anche a gestire le loro società e a essere autonomi. Lo fanno ancora oggi.
Fareed Zakaria, editorialista del Washington Post , è il conduttore di Fareed Zakaria Gps sulla Cnn, ed è l’autore di In Defense of a Liberal Education . © 2-015 Washington Post. Traduzione di Fabio Galimberti
Pubblicato il 12 Aprile 2015