L’ inesausta miniera di paradossi della giustizia italiana offre talvolta pepite troppo grosse per passare inosservate. Per il clamore del caso, com’è accaduto nel giallo di Perugia. O per il rilievo dei personaggi, come capita adesso con Vasco Errani.
Presidente dell’Emilia-Romagna dal 1999, stimato trasversalmente dai compagni di partito del Pd e dagli avversari, Errani si dimette dopo quindici anni di governo regionale, a luglio del 2014, quando la seconda sezione della Corte d’appello di Bologna gli infligge un anno di reclusione (con pena sospesa) per falso. La vicenda è complessa. Il fratello maggiore, Giovanni, è presidente della cooperativa vinicola «Terremerse» che ottiene dalla Regione un finanziamento di un milione per la costruzione di una cantina. Secondo la Procura, dietro quel finanziamento ci sarebbe una truffa e Giovanni viene condannato in primo grado a due anni e mezzo.
Mancano pochi mesi alle elezioni regionali del 2010 quando il caso esplode a Bologna sui giornali dell’opposizione. Vasco Errani commissiona una relazione tecnica per dimostrare la regolarità dell’operazione «Terremerse» e la spedisce in Procura accompagnandola con una propria missiva. Secondo i pm bolognesi, la relazione è «addomesticata» e, assieme alla missiva, costituisce un falso con cui il presidente della Regione vuole reagire alla campagna di stampa prima del voto. Il giudice di primo grado assolve Errani. La Corte d’appello riforma la sentenza e lo condanna. Il giorno stesso, l’8 luglio, dichiarandosi innocente, lui si dimette e si consegna al silenzio sino alla sentenza di Cassazione prevista il prossimo giugno: senza alimentare polemiche, per un falso, dopo tre lustri di governo senza neppure un avviso di garanzia, in un Paese dove mafiosi e corrotti restano incollati alla poltrona gridando alla persecuzione giudiziaria fino all’ultimo fiato.
Capita però che, l’altro giorno, la Corte d’appello bolognese (stavolta terza sezione) assolva Giovanni, il fratello, perché «il fatto non sussiste» (un’altra tranche dell’operazione «Terremerse» era caduta in prescrizione). Dunque, in soldoni, la situazione è la seguente: Vasco si ritrova condannato per l’accusa di avere falsificato carte con cui dimostrare la liceità di un’operazione che, secondo i nuovi giudici di Giovanni, non è illecita. Più che un processo, pare una sciarada. Ferme restando tutte le riserve sull’opportunità politica di concedere finanziamenti alla coop del proprio fratello, è difficile spiegare a un osservatore straniero simili contorcimenti giuridici.
Il rito italiano è sempre più «creativo»: lo dimostra, in tutt’altro contesto, la tragedia di Meredith Kercher, la studentessa inglese massacrata a Perugia nel 2007 per il cui assassinio è in carcere Rudy Guede, condannato in concorso con complici che complici non possono essere, vista l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La malattia sta nella rincorsa alla sentenza perfetta: nell’inesauribile produzione di appelli e controappelli che sfociano in verdetti contraddittori e, nell’insieme, incomprensibili.
Michele Ainis, su queste colonne, ha osservato come l’appello in molti Paesi europei sia una regola assai circoscritta e come, negli Usa, la Corte suprema dirima 80 casi l’anno, mentre qui la nostra Cassazione ne fronteggia 80 mila (ed è a volte tentata di entrare nel merito, come su Perugia, tramite la porticina dei difetti di motivazione nelle sentenze esaminate in punto di legittimità). Eliminare l’appello in caso di assoluzione e limitarlo fortemente in caso di condanna potrebbero essere vie d’uscita plausibili. Non si tratta di dare addosso ai giudici ma di modificare le procedure, non di dare la caccia all’errore ma di smontare qualche muro del labirinto.
Pubblicato il 11 Aprile 2015