La Borsa sale del 2-3 per cento? Evviva, la crisi è finita! La Borsa scende del 2-3 per cento? Orrore, la crisi continua! Le (abbastanza normali) convulsioni agostane dei mercati finanziari sono state semplicisticamente adottate da numerosi analisti e mezzi di informazione di molti Paesi avanzati quale unico, o largamente prevalente, indicatore di un fenomeno molto complesso, con risvolti che vanno al di là dell’economia, com’è, appunto, la crisi che stiamo vivendo.
All’ansia di trovare nell’andamento di Borsa un unico, facile «termometro», si accompagna la tendenza a leggerlo in maniera semplicistica e distorta pur di ottenere il sospirato responso di esserci liberati della crisi. In realtà, i «termometri» dovrebbero essere molti e se si guarda all’economia reale si trovano, per ora, segnali piuttosto contrastanti rispetto agli incrementi dei listini degli ultimi giorni.
Nell’esame delle Borse si rischia poi di cadere in quella che potrebbe essere definita l’«illusione aritmetica»: immaginiamo che, prima della crisi, un indice di Borsa valga 100 e poi perda il cinquanta per cento del suo valore, precipitando a quota 50. Immaginiamo poi che, a questo punto, risalga del 50 per cento raggiungendo quota 75. Il tripudio sarà generale ma solo parzialmente giustificato perché il nostro indice è ancora inferiore del 25 per cento al valore precedente la crisi. La stessa «illusione aritmetica» traspare da numerosi commenti su produzione industriale, prodotto lordo e moltissimi altri indicatori economici. Essa rischia di portarci a stappare la bottiglia molto prima del tempo. In realtà potremo farlo solo quando non solo ci saranno stabili aumenti sui periodi immediatamente precedenti (variazioni congiunturali positive) ma anche aumenti rispetto ai livello pre-crisi (variazioni tendenziali positive).
Se ci liberiamo dall’«illusione aritmetica» dobbiamo constatare che, almeno per quanto riguarda l’economia reale, non solo non siamo ancora usciti dalla crisi ma che non abbiamo ancora neppure cominciato a uscirne. E solo quando disporremo dei dati di settembre-ottobre potremo capire se questo processo di uscita è stato davvero avviato. Per ora i dati americani sono incerti, con qualche accenno positivo e uno sforzo di vedere una luce in fondo al tunnel, manifestata nel discorso di ieri del governatore Bernanke, che deve ancora essere pienamente confermata dai fatti; quelli francesi e tedeschi (molto) debolmente positivi; quelli giapponesi assai dubbi (il Paese ha avuto sei o sette «false partenze» negli ultimi quindici anni); quelli cinesi enigmatici anche per le notizie di un crescente disagio sociale.
E l’Italia? Occorre dire tranquillamente una verità scomoda: non è vero che, dal punto di vista esclusivamente produttivo, il Bel Paese stia sopportando meglio degli altri i colpi della crisi. Le cadute degli indici italiani di produzione sono tra le più marcate di tutti i paesi avanzati e l’Italia si salva grazie alla sua flessibilità sociale, alle varie reti di solidarietà, a cominciare da quella famigliare, e probabilmente anche perché una parte della produzione ufficialmente perduta viene in realtà «sommersa»: quando gli affari non vanno bene, un gran numero di piccole e piccolissime imprese sono tentate di farsi pagare parzialmente in nero e di pagare parzialmente in nero i propri dipendenti. La perdita ufficiale di produzione è così superiore alla realtà, ma non c’è da rallegrarsene: queste distorsioni salvano l’Italia dalle sofferenze più evidenti ma ne impediscono o rallentano la crescita. Lo dimostra il fatto che sono circa quindici anni che l’Italia si limita a galleggiare e viene lasciata indietro dagli altri paesi avanzati.
Le conclusioni che se ne possono trarre sono che non si esce da questa crisi con poche giornate di (dubbio) sole in Borsa e che tali giornate devono essere confermate da qualche mese di sereno nei tradizionali comparti produttivi; che le analisi devono essere meno immediate e più complete; e che in ogni caso il raggiungimento dei livelli pre-crisi non sarà rapido. Se, come appare da numerose analisi di settore, in molti Paesi, tra cui l’Italia, la risalita dei consumi comincerà solo nel 2010, tale raggiungimento non può essere previsto nello stesso 2010 ma deve essere spostato al 2011 o forse a un anno successivo. In queste condizioni diventa ogni giorno più illusorio pensare che tutto possa tornare «come prima». Necessariamente cambieranno sia le strutture produttive sia la distribuzione dei redditi e dovranno essere rivisti meccanismi fiscali e ombrelli sociali: che lo vogliamo o no, la crisi è un importante laboratorio economico-sociale, forse anche politico. Alla vigilia di un rientro dalle ferie che – come ha ricordato recentemente, tra gli altri, la presidente di Confindustria – si preannuncia difficile e problematico, occorre trovare l’energia di progettare il dopo-crisi invece di limitarsi a subirlo.
mario.deaglio@unito.it
da La Stampa
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