E’ stata la prima gara della speranza nelle strade della capitale di una Italia liberata da appena un anno. La gara che le Associazioni partigiane e l’Unione Velocipedista vollero proprio il giorno del 25 aprile in una nazione che si muoveva prevalentemente in bicicletta, che ancora non sapeva se sarebbe stata una rinata democrazia repubblicana o monarchica, ma che di sicuro aveva una voglia matta di lasciarsi le macerie alle spalle e tornare a vivere e crescere. Soprattutto i giovani. E per i giovani, i giovani ciclisti dilettanti usciti dalla guerra, fu pensato quel Gran Premio della Liberazione che si corse per la prima volta nel 1946. Per poi diventare negli anni la gara di riferimento per i ciclisti dilettanti di tutto il mondo (e per gli osservatori che da lì hanno pescato grandi campioni).
Una storia che stava per spezzarsi proprio alla sua 70esima edizione, quella del prossimo 25 aprile: annullata per mancanza di fondi. Salvata in volata — è il caso di dirlo — dalla bottega ciclistica più antica della capitale, quei Cicli Lazzaretti che tra qualche mese compiranno cento anni di storia. Lo hanno fatto di slancio — come hanno annunciato con gran sospiro di sollievo gli organizzatori — aprendo anche una raccolta di fondi (un crowdfunding sul loro sito) per chi volesse sostenere lo sforzo. «Poi, per il prossimo anno — dicono — cercheremo di organizzarci meglio».
In fin dei conti quel 25 aprile del ‘46 alla partenza dalle Terme di Caracalla c’erano sicuramente i loro nonni, con le loro biciclette. Le cronache del tempo parlano di una grande folla, nelle foto si vedono molti spettatori con i giornali ripiegati a fare da cappello (ricordate Paolo Conte che aspetta Bartali sul paracarro?), gli stessi giornali su cui poeti e scrittori celebrano la sconfitta del nazifascismo e si scontrano sul destino dei Savoia. I cinema della capitale invitano a vedere Sciuscià. Le squadre romane sono ovviamente in maggioranza: l’Audace, la Velodromo Appio, l’Indomita, la Trionfale, la Lazio, la As Roma. Vince Gustavo Guglielmetti. Ma basta qualche anno e il Liberazione diviene una data di punta, sostenuta anche dal Quirinale (per il valore simbolico) ma sempre più voluta dalle squadre dilettanti di tutto il mondo che sul circuito della città antica trovano una ineguagliabile passerella per i propri aspiranti campioni. Storie di ciclismo d’altri tempi, che hanno ancora un testimone in Eugenio Bomboni. 85 anni e un fiume in piena. Ricorda il passaggio da brivido dell’intero plotone tra i tram che portavano ai Castelli romani («nessuno mollava, un tentativo di suicidio collettivo»); la vigilanza in alcune notti intorno al Campidoglio («i neofascisti bruciavano le balle di paglia messe a protezione »); il salto con la direzione di Mealli (che poi inventerà la Tirreno-Adriatico) e con quella di Lucio Tonelli che la trasforma in grande evento anche mediatico, rilanciato dalla tv. E l’arrivo dei grandi stranieri: «Mormoravano che facessimo vincere i russi. Stupidaggini. La verità è che lo squadrone russo era fortissimo, guidato dal mitico Sergei Sukhoruchenkov, e metteva paura a tutti».
Bomboni, giornalista dell’ Unità, guida la corsa per anni e proprio per questo diverrà anche presidente della associazione mondiale organizzatori. Racconta storie di personaggi, uno in particolare. E’ il 1985, «si presenta questo ragazzo di cui si diceva un gran bene, ma arriva all’ultimo momento, in treno con la suabici perché la sua squadra non voleva spendere i soldi per partecipare. Parte, vince, riprende il treno e se ne va addirittura prima della premiazione». Si chiama Gianni Bugno. Il giorno dopo ha grandi titoli sui giornali. Su l’ Unità un esperto come Gino Sala scrive «sulle vie di Roma forse è nato un campione». Era nato. Pochi mesi dopo diviene professionista per una storia di vittorie. Quella che gli darà il titolo Mondiale la ottiene battendo in volata il russo Dimitri Konyshev, che il Liberazione era andato a vincerlo due anni dopo di lui.
Siamo ai campioni moderni, su un circuito che diviene sempre più veloce. La ricorda Michele Bartoli («un passaporto per aspirare al professionismo»). La raccontano così due protagonisti come Matteo Trentin («Una delle vittorie più belle della mia vita, l’avevo puntata e mi ha cambiato la vita») o Sasha Modolo di cui restano anche le lacrime dopo il traguardo («Non riuscii a trattenerle perché non riuscivo a credere di aver raggiunto quel risultato. La gara ha un fascino incredibile, correre a Roma è sempre una grande emozione »).
L’emozione, per fortuna, si ripeterà anche quest’anno. Non ci sarà il grande Alfredo Martini al traguardo. Né un vecchio ciclista romano come Spartaco Rosati, classe 1923, detto “er cecione”. Perse quella storica prima edizione del ‘46 in volata, ma vinse l’anno dopo. Ricordava di essere stato portato in trionfo e che quella era la cosa che aveva sempre sognato, «da quando ero bambino e mio padre mi regalò la prima bicicletta. Era una Lazzaretti ».