È fondamentale, accanto all’insegnamento della retorica, dedicarsi alla corretta diffusione di un linguaggio scientifico, superando la falsa dicotomia con le «humanities»
Saper costruire un discorso persuasivo. Ordinare le proprie ragioni secondo una logica argomentativa in grado di suscitare l’adesione sentimentale e intellettuale dell’interlocutore. Riappropriarsi dei meccanismi del linguaggio capendone le connessioni, tanto più in presenza delle nuove strumentazioni tecniche amplificatrici all’infinito delle antiche forme espressive e gestuali. Appare oggi, cioè, più che mai indispensabile far proprie le modalità dell’antica retorica, come fu tanti secoli fa codificata da Aristotele, Cicerone, Quintiliano, perché solo conoscendone i meccanismi ci si può dotare degli antidoti in grado di farci guardare con consapevolezza critica alle tante insinuanti operazioni di manipolazione delle coscienze.
Bene, dunque, ha fatto il «Domenicale» ad aprire un dibattito sul tema, auspicando una sua diffusione scolastica, in grado di insegnare ai giovani la virtù del dialogo. Quella insostituibile relazione, cioè, dove l’uso meditato della parola faccia da ponte al rapporto con l’altro e consenta, in tal modo, uno scambio di considerazioni, insieme a un intreccio di valutazioni reciproche, in grado di rompere le barriere delle attuali finte socializzazioni, affidate a strumenti che favoriscono solo la moltiplicazione delle solitudini.
In particolare, nell’attuale realtà dominata da una sorta di “invasione” tecnologica, diventa quantomai indispensabile dedicarsi alla corretta diffusione di un linguaggio scientifico, che sgombri il campo dal considerare il discorso relativo ai temi della scienza immobile nella sua fissità, indiscutibile nelle sue acquisizioni valide una volta per tutte. Con un comportamento in tal modo opposto all’operare stesso degli scienziati, i quali maturano i loro risultati lungo un complesso itinerario storico e comunicativo non dissimile dai processi dialettici di tutte le altre discipline.
Il rischio di un tale comportamento, favorito da questa mancanza di comprensione del linguaggio scientifico, è – come accade – di accedere alle informazioni della scienza facendole proprie quali oracoli magici cui soggiacere in termini fideistici e di schieramento irrazionale. Basta pensare a quanto accade in materia di clima, di Ogm, di elettrosmog, di impiego delle staminali e così via.
Ma l’esigenza odierna di sensibilizzarsi a un percorso formativo attento a un corretto discorso scientifico, non è solo legato all’accresciuta dimensione quantitativa della presenza della “scienza” nella nostra quotidianità. Riguarda bensì l’avvenuto superamento – nella pratica dell’attività produttiva oltre che nella teoria – dell’antica dicotomia tra scienze “dure” e humanities ( di solito corredata dall’auspicio, sempre disatteso nei fatti nel nostro Paese, da un loro integrarsi) , in quanto i contenuti del saper fare in senso manuale e finanche artigianale nei nuovi terreni in corso di esplorazione dell’informatica, sono forniti da ambiti di linguaggio e di conoscenze critiche appartenenti appunto a settori conoscitivi diversi ed apparentemente lontani, che solo attraverso un fecondo confronto dialogico possono davvero interagire ( vi fa lucido accenno Patrizio Bianchi nel suo intervento sul Domenicale dell’8 febbraio scorso).
Ritengo, dunque, indispensabile, di fronte ad una simile esigenza, applicarsi con urgenza e fantasia concretamente creativa ad individuare traiettorie formative dei corsi universitari, dove si sfondi davvero una frontiera di incomunicabilità, dominata da pigra inconsapevolezza del reale, che ritiene sufficiente impartire agli allievi qualche nozione dell’uno e dell’altro mondo di conoscenze, per avviare invece un effettivo intreccio di competenze. Come si potrà altrimenti sperare che la fruizione dei nostri beni culturali possa davvero adeguarsi alle esigenze dell’oggi? Come pensare che la straordinaria capacità inventiva della nostra meccanica di precisione possa davvero reggere le sfide del futuro solo affidandosi all’indiscussa abilità dell’antica tradizione artigianale? E questo per parlare solo dei settori di più evidente importanza per il nostro Paese.
È certo un percorso impervio e da costruire con paziente applicazione, ma per il quale non si può prescindere dall’uso di un linguaggio criticamente avvertito, estraneo alle improvvisazioni, ai luoghi comuni, alle facili scorciatoie di affermazioni più rivolte a condizionare che a formare consapevolezze.
Bene, dunque, ha fatto il «Domenicale» ad aprire un dibattito sul tema, auspicando una sua diffusione scolastica, in grado di insegnare ai giovani la virtù del dialogo. Quella insostituibile relazione, cioè, dove l’uso meditato della parola faccia da ponte al rapporto con l’altro e consenta, in tal modo, uno scambio di considerazioni, insieme a un intreccio di valutazioni reciproche, in grado di rompere le barriere delle attuali finte socializzazioni, affidate a strumenti che favoriscono solo la moltiplicazione delle solitudini.
In particolare, nell’attuale realtà dominata da una sorta di “invasione” tecnologica, diventa quantomai indispensabile dedicarsi alla corretta diffusione di un linguaggio scientifico, che sgombri il campo dal considerare il discorso relativo ai temi della scienza immobile nella sua fissità, indiscutibile nelle sue acquisizioni valide una volta per tutte. Con un comportamento in tal modo opposto all’operare stesso degli scienziati, i quali maturano i loro risultati lungo un complesso itinerario storico e comunicativo non dissimile dai processi dialettici di tutte le altre discipline.
Il rischio di un tale comportamento, favorito da questa mancanza di comprensione del linguaggio scientifico, è – come accade – di accedere alle informazioni della scienza facendole proprie quali oracoli magici cui soggiacere in termini fideistici e di schieramento irrazionale. Basta pensare a quanto accade in materia di clima, di Ogm, di elettrosmog, di impiego delle staminali e così via.
Ma l’esigenza odierna di sensibilizzarsi a un percorso formativo attento a un corretto discorso scientifico, non è solo legato all’accresciuta dimensione quantitativa della presenza della “scienza” nella nostra quotidianità. Riguarda bensì l’avvenuto superamento – nella pratica dell’attività produttiva oltre che nella teoria – dell’antica dicotomia tra scienze “dure” e humanities ( di solito corredata dall’auspicio, sempre disatteso nei fatti nel nostro Paese, da un loro integrarsi) , in quanto i contenuti del saper fare in senso manuale e finanche artigianale nei nuovi terreni in corso di esplorazione dell’informatica, sono forniti da ambiti di linguaggio e di conoscenze critiche appartenenti appunto a settori conoscitivi diversi ed apparentemente lontani, che solo attraverso un fecondo confronto dialogico possono davvero interagire ( vi fa lucido accenno Patrizio Bianchi nel suo intervento sul Domenicale dell’8 febbraio scorso).
Ritengo, dunque, indispensabile, di fronte ad una simile esigenza, applicarsi con urgenza e fantasia concretamente creativa ad individuare traiettorie formative dei corsi universitari, dove si sfondi davvero una frontiera di incomunicabilità, dominata da pigra inconsapevolezza del reale, che ritiene sufficiente impartire agli allievi qualche nozione dell’uno e dell’altro mondo di conoscenze, per avviare invece un effettivo intreccio di competenze. Come si potrà altrimenti sperare che la fruizione dei nostri beni culturali possa davvero adeguarsi alle esigenze dell’oggi? Come pensare che la straordinaria capacità inventiva della nostra meccanica di precisione possa davvero reggere le sfide del futuro solo affidandosi all’indiscussa abilità dell’antica tradizione artigianale? E questo per parlare solo dei settori di più evidente importanza per il nostro Paese.
È certo un percorso impervio e da costruire con paziente applicazione, ma per il quale non si può prescindere dall’uso di un linguaggio criticamente avvertito, estraneo alle improvvisazioni, ai luoghi comuni, alle facili scorciatoie di affermazioni più rivolte a condizionare che a formare consapevolezze.