Le vicende del nostro ente di ricerca dal 1923 a oggi: un emblema di scarsa lungimiranza politica con l’eccezione del ministro Ruberti
Per chi ha a cuore le sorti della ricerca scientifica e il suo ruolo per lo sviluppo del nostro paese, è illuminante la lettura di La ricerca e il Belpaese, un lunga intervista in cui Lucio Bianco, ex-presidente del Cnr, ripercorre la storia del principale ente di ricerca italiano dalle sue origini nell’immediato primo dopoguerra fino a oggi. Una storia emblematica dei rapporti tra scienza e politica.
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche nasce nel 1923 per iniziativa di Vito Volterra, il grande matematico e senatore del Regno che rappresenta l’Italia nel comitato esecutivo del Consiglio Internazionale delle Ricerche, cui aderiscono gli scienziati dei paesi alleati, usciti vincitori dalla guerra. Già nel 1918 Volterra – che si era arruolato volontario (all’età di 55 anni!) – aveva trasformato l’Ufficio invenzioni, di cui era direttore, da struttura di carattere militare a Ufficio invenzioni e ricerca, con sede ancora presso il ministero della guerra ma lo scopo di sviluppare studi nel campo della fisica, della chimica e dell’ingegneria. Di fatto, il nucleo originario del futuro Cnr, che un decreto ministeriale del 1919 prefigura come l’organismo per promuovere «ricerche a scopo industriale e per la difesa nazionale». Ma dovranno passare ancora diversi anni di inerzia – per non dire dell’ostilità di Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione del successivo governo Giolitti – prima che il decreto istitutivo del Cnr trovi realizzazione, se pur con esigue risorse finanziarie. Del resto, osserva Bianco, il Cnr nasce orientato verso le cosiddette scienze “dure”, le scienze naturali, la fisica e la matematica, cui Croce e Gentile negano valore culturale – e uno dei primi provvedimenti di Gentile ministro dell’Istruzione nel governo Mussolini sarà proprio quello di un robusto taglio del trenta per cento dei fondi per l’università e la ricerca scientifica. Un’attitudine che, verrebbe da dire, da allora ha fatto scuola nei governi del nostro paese, con poche luminose eccezioni. La carenza delle risorse è infatti una costante anche nella storia del Cnr.
Nel 1927, alla scadenza del mandato di Volterra, noto e aperto antifascista, Mussolini chiama alla presidenza Guglielmo Marconi, premio Nobel e figura di prestigio internazionale, non ostile al regime, anzi. Marconi è iscritto al partito (sarà addirittura membro del Gran Consiglio) e nei dieci anni della sua presidenza il budget del Cnr riceve un sostanzioso, anche se ancora insufficiente, incremento e vengono creati i primi Istituti – per le applicazioni del calcolo, l’ottica, l’elettroacustica, le ricerche aereonautiche, la geofisica, la radiotecnica. Il prezzo è una progressiva perdita di rilevanza internazionale, esito della politica di autarchia perseguita dal regime e incrementata quando, alla morte di Marconi, alla presidenza viene nominato il maresciallo Badoglio, rientrato in patria dalla guerra d’Etiopia con l’aura del vincitore. Tuttavia, afferma Bianco, nonostante le aspettative di Mussolini il Cnr non ha un «ruolo bellico» ma «cerca di sopravvivere in quei tempi turbinosi».
A guerra ancora in corso, una nuova stagione comincia nel 1944, dopo la liberazione di Roma, con la nomina del matematico Guido Castelnuovo a commissario seguita, qualche mese dopo, dalla chiamata di Gustavo Colonnetti, un ingegnere e matematico torinese che resterà alla guida del Cnr per dodici anni. È stato Colonnetti l’artefice della ricostruzione dell’ente nel dopoguerra: il Cnr diventa organo dello Stato, con personalità giuridica e posto alle dipendenze della presidenza del Consiglio. Nelle parole di Bianco, che nel Cnr è entrato come giovane ricercatore con un contratto a tempo determinato per poi trascorrervi l’intera carriera scientifica, rivivono le fasi cruciali attraversate dal mondo della ricerca nell’ultimo cinquantennio: negli anni Sessanta l’emblematico caso Ippolito che fa seguito alla morte di Mattei ed ha un forte impatto negativo sulla politica energetica del nostro paese, l’arresto di Domenico Marotta, direttore dell’Istituto superiore di sanità, alle dimissioni di Adriano Buzzati-Traverso dalla direzione del Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli. E poi i “Progetti finalizzati” lanciati da Alessandro Faedo, il matematico che, alla guida del Cnr negli anni Settanta, raccoglie e sviluppa l’eredità di Giovanni Polvani e Vincenzo Caglioti, progetti poi ripresi dalle successive presidenze di Ernesto Quagliariello e Luigi Rossi-Bernardi. E, infine, la presidenza dello stesso Bianco con le vicende di ieri, la riforma Berlinguer-Zecchino e i contrasti con la ministra Moratti e la sua riforma, che portano alle sue dimissioni da presidente.
Nell’Italia repubblicana i rapporti tra scienza e politica sono stati a lungo caratterizzati, dice Bianco, dalla «mancanza di un reale interesse da parte della classe politica per la ricerca» con l’eccezione di Antonio Ruberti, sia perché restando cinque anni al ministero «ha avuto modo di dare una direzione alla politica della ricerca», sia perché era «un ministro esperto» e «sapeva di cosa parlava». Pur non essendo al centro degli interessi dei politici, qualche governo della cosiddetta prima Repubblica ha finanziato la ricerca scientifica in maniera significativa, anche se non al livello di altri paesi europei. Negli ultimi vent’anni invece è venuta meno «la disponibilità culturale verso la ricerca» cui si è accompagnata una politica di tagli dei finanziamenti. «È vero che siamo in un periodo di crisi finanziaria e di scarsa disponibilità economica», conclude Bianco. «Tuttavia, negli altri paesi non hanno toccato i fondi destinati all’università e alla ricerca. Anzi, in Germania Angela Merkel ha realizzato un’ampia spending review, tagliando in maniera incisiva il bilancio dello Stato, ma ha aumentato i fondi per l’università e la ricerca, perché li considera investimenti strategici per lo sviluppo del paese.
In Italia, per trovare un esempio simile di lungimiranza politica, bisogna ritornare indietro a Quintino Sella, mitico ministro delle Finanze del Regno subito dopo l’Unità d’Italia, che si diceva disposto a «tagliare qualsiasi cosa, ma non i fondi per la scuola”. Ma, appunto, erano altri tempi.
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche nasce nel 1923 per iniziativa di Vito Volterra, il grande matematico e senatore del Regno che rappresenta l’Italia nel comitato esecutivo del Consiglio Internazionale delle Ricerche, cui aderiscono gli scienziati dei paesi alleati, usciti vincitori dalla guerra. Già nel 1918 Volterra – che si era arruolato volontario (all’età di 55 anni!) – aveva trasformato l’Ufficio invenzioni, di cui era direttore, da struttura di carattere militare a Ufficio invenzioni e ricerca, con sede ancora presso il ministero della guerra ma lo scopo di sviluppare studi nel campo della fisica, della chimica e dell’ingegneria. Di fatto, il nucleo originario del futuro Cnr, che un decreto ministeriale del 1919 prefigura come l’organismo per promuovere «ricerche a scopo industriale e per la difesa nazionale». Ma dovranno passare ancora diversi anni di inerzia – per non dire dell’ostilità di Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione del successivo governo Giolitti – prima che il decreto istitutivo del Cnr trovi realizzazione, se pur con esigue risorse finanziarie. Del resto, osserva Bianco, il Cnr nasce orientato verso le cosiddette scienze “dure”, le scienze naturali, la fisica e la matematica, cui Croce e Gentile negano valore culturale – e uno dei primi provvedimenti di Gentile ministro dell’Istruzione nel governo Mussolini sarà proprio quello di un robusto taglio del trenta per cento dei fondi per l’università e la ricerca scientifica. Un’attitudine che, verrebbe da dire, da allora ha fatto scuola nei governi del nostro paese, con poche luminose eccezioni. La carenza delle risorse è infatti una costante anche nella storia del Cnr.
Nel 1927, alla scadenza del mandato di Volterra, noto e aperto antifascista, Mussolini chiama alla presidenza Guglielmo Marconi, premio Nobel e figura di prestigio internazionale, non ostile al regime, anzi. Marconi è iscritto al partito (sarà addirittura membro del Gran Consiglio) e nei dieci anni della sua presidenza il budget del Cnr riceve un sostanzioso, anche se ancora insufficiente, incremento e vengono creati i primi Istituti – per le applicazioni del calcolo, l’ottica, l’elettroacustica, le ricerche aereonautiche, la geofisica, la radiotecnica. Il prezzo è una progressiva perdita di rilevanza internazionale, esito della politica di autarchia perseguita dal regime e incrementata quando, alla morte di Marconi, alla presidenza viene nominato il maresciallo Badoglio, rientrato in patria dalla guerra d’Etiopia con l’aura del vincitore. Tuttavia, afferma Bianco, nonostante le aspettative di Mussolini il Cnr non ha un «ruolo bellico» ma «cerca di sopravvivere in quei tempi turbinosi».
A guerra ancora in corso, una nuova stagione comincia nel 1944, dopo la liberazione di Roma, con la nomina del matematico Guido Castelnuovo a commissario seguita, qualche mese dopo, dalla chiamata di Gustavo Colonnetti, un ingegnere e matematico torinese che resterà alla guida del Cnr per dodici anni. È stato Colonnetti l’artefice della ricostruzione dell’ente nel dopoguerra: il Cnr diventa organo dello Stato, con personalità giuridica e posto alle dipendenze della presidenza del Consiglio. Nelle parole di Bianco, che nel Cnr è entrato come giovane ricercatore con un contratto a tempo determinato per poi trascorrervi l’intera carriera scientifica, rivivono le fasi cruciali attraversate dal mondo della ricerca nell’ultimo cinquantennio: negli anni Sessanta l’emblematico caso Ippolito che fa seguito alla morte di Mattei ed ha un forte impatto negativo sulla politica energetica del nostro paese, l’arresto di Domenico Marotta, direttore dell’Istituto superiore di sanità, alle dimissioni di Adriano Buzzati-Traverso dalla direzione del Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli. E poi i “Progetti finalizzati” lanciati da Alessandro Faedo, il matematico che, alla guida del Cnr negli anni Settanta, raccoglie e sviluppa l’eredità di Giovanni Polvani e Vincenzo Caglioti, progetti poi ripresi dalle successive presidenze di Ernesto Quagliariello e Luigi Rossi-Bernardi. E, infine, la presidenza dello stesso Bianco con le vicende di ieri, la riforma Berlinguer-Zecchino e i contrasti con la ministra Moratti e la sua riforma, che portano alle sue dimissioni da presidente.
Nell’Italia repubblicana i rapporti tra scienza e politica sono stati a lungo caratterizzati, dice Bianco, dalla «mancanza di un reale interesse da parte della classe politica per la ricerca» con l’eccezione di Antonio Ruberti, sia perché restando cinque anni al ministero «ha avuto modo di dare una direzione alla politica della ricerca», sia perché era «un ministro esperto» e «sapeva di cosa parlava». Pur non essendo al centro degli interessi dei politici, qualche governo della cosiddetta prima Repubblica ha finanziato la ricerca scientifica in maniera significativa, anche se non al livello di altri paesi europei. Negli ultimi vent’anni invece è venuta meno «la disponibilità culturale verso la ricerca» cui si è accompagnata una politica di tagli dei finanziamenti. «È vero che siamo in un periodo di crisi finanziaria e di scarsa disponibilità economica», conclude Bianco. «Tuttavia, negli altri paesi non hanno toccato i fondi destinati all’università e alla ricerca. Anzi, in Germania Angela Merkel ha realizzato un’ampia spending review, tagliando in maniera incisiva il bilancio dello Stato, ma ha aumentato i fondi per l’università e la ricerca, perché li considera investimenti strategici per lo sviluppo del paese.
In Italia, per trovare un esempio simile di lungimiranza politica, bisogna ritornare indietro a Quintino Sella, mitico ministro delle Finanze del Regno subito dopo l’Unità d’Italia, che si diceva disposto a «tagliare qualsiasi cosa, ma non i fondi per la scuola”. Ma, appunto, erano altri tempi.
Lucio Bianco, La ricerca e il Belpaese. Conversazione con Pietro Greco. Prefazione di Raffaella Simili. Postfazione di Luciano Canfora, Donzelli editore, Roma, pagg. 150,
€ 18,50