Caro direttore,
il tema caldo di quest’estate calda è il dialetto come materia obbligatoria nelle scuole d’Italia. Dialetto e approfondite conoscenze di storia e cultura locale per studenti e insegnanti, per rimarcare con penna e calamaio del legislatore quel puzzle raro e affascinante di differenze e dissonanze, anche microscopiche, che compongono l’identità italiana. Nell’Italia del burro, così come in quella dell’olio beninteso, si torni a valorizzare i tratti autoctoni, a partire dalla lingua. Questo, in estrema sintesi, il messaggio politico della Lega di Bossi, che al di là delle esternazioni ad effetto, potrebbero diventare disegno di legge in tempi brevi. La serie di proposte assomiglia sempre più a un vero e proprio progetto culturale. Doveroso parlarne, quindi, anche fuori dall’arena politica, perché i progetti culturali creano le premesse per la crescita e lo sviluppo di un paese, oppure per il suo declino.
Torniamo alla lingua e ai dialetti. Battaglia di retroguardia o colpo di reni innovativo, a rinforzo tattico della visione concreta del federalismo leghista? Il tema è caldo, dicevamo, e molto complesso. Possibile tuttavia, e spero utile, fare chiarezza, in poche mosse.
Prima mossa. Il quadro storico-linguistico dell’Italia moderna, dall’Unità ad oggi, è chiaro e irreversibile. L’unità linguistica, che fa dell’italiano lingua nazionale e ufficiale in tutti i contesti pubblici e formali e in gran parte di quelli informali, soprattutto per le ultime generazioni, è il risultato di un lungo processo di evoluzione storica e culturale. L’italiano non è l’esperanto. Ne sono stati protagonisti, nell’ordine: la scuola pubblica (nell’insegnamento e nella valorizzazione della grande tradizione letteraria nazionale), la leva militare obbligatoria, la radio e la televisione. Si tratta di una conquista fondamentale ai fini della costruzione di una coscienza nazionale unitaria, la cui forza politica è più facilmente misurabile guardando all’immagine dell’Italia all’estero, come spesso accade. L’italiano è in crescita come lingua di studio nel mondo (nella sola area mediterranea oltre 20.000 gli studenti ad oggi, con un incremento che sfiora il 30% annuo, in paesi come Turchia, Libano, Egitto e Israele).
L’italiano ci identifica come superpotenza culturale nel mondo, in quanto lingua dell’arte e della musica, ma ormai anche come lingua di interscambi commerciali sempre più fitti. Si punti, allora, al miglioramento delle competenze linguistiche dell’italiano per gli italofoni (ce n’è bisogno!) e per gli stranieri e si potenzi quella politica di promozione linguistica e culturale, che ha fatto della Francia e della Gran Bretagna modelli e punti di riferimento politico e culturale in vaste aree del pianeta.
Seconda mossa. Le politiche linguistiche di un paese devono essere di lungo respiro e in sintonia con il disegno politico generale. Due priorità in agenda, su cui il governo si sta impegnando intensamente: internazionalizzare e integrare, cioè aprirsi al resto del mondo (nelle imprese, nelle università, nelle istituzioni) e creare condizioni concrete di coesione e solidarietà sociale fra italiani e stranieri immigrati. La lingua nazionale, in entrambi i casi è strumento fondamentale, direi necessario, perché i due processi in atto, di apertura e di accoglienza, siano efficaci e duraturi.
Terza ed ultima mossa. I programmi e i metodi di insegnamento della scuola devono rispondere agli obiettivi educativi condivisi ed essere commisurati alle risorse disponibili. Degli obiettivi si è detto. Della scarsità di risorse ben sappiamo. Non dimentichiamo, in questo quadro, l’«emergenza lingue straniere»: siamo ancora un paese fondamentalmente monolingue e Bruxelles ci chiede almeno due lingue per tutti. Dobbiamo continuare a investire quindi, di più e meglio, nell’insegnamento delle lingue straniere nella scuola. Non vorremmo che fossero i nostri figli a pagare il prezzo di questo ritardo. Per i nostri figli, c’è da augurarsi, infatti, un futuro di mobilità, fisica e intellettuale, che non confligge affatto col rafforzamento dei legami con le proprie radici territoriali, anzi. Cassoela o orecchiette, barolo o sagrantino, dialetto veneto o napoletano, l’italianità continua ad essere espressa al meglio per via sintetica più che per frammentazione analitica. Ragion per cui, di fronte alla Gioconda di Leonardo, così come nell’ascolto della Tosca di Puccini o della Traviata di Verdi, continuiamo a sentirci tutti indistintamente e orgogliosamente italiani. E vorremmo continuare a farlo, in Italia e nel mondo.
* Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia
Il Corriere della Sera, 20 agosto 2009