La cultura europea è profondamente segnata dagli orrori di cui si è resa responsabile: si è abbandonata alla violenza religiosa, all’interno e fra le Chiese; ha inventato una macchina di sfruttamento bestiale basata sullo schiavismo e sul colonialismo; ha costruito l’inferno totalitario e il genocidio come soluzione «finale», che non ha avuto pietà di nessuno. Ma quella stessa cultura ha sviluppato idee che costituiscono un anticorpo agli orrori. Non un antidoto, giacché quel veleno — lo dimostra l’islamofobia contro la quale i berlinesi in questi giorni si sono schierati come un muro, davanti alla porta di Brandeburgo oscurata per marcare il lutto della ragione — può sempre tornare: ma un anticorpo che combatte l’orrore, fatto di concezione dei diritti, di aspirazioni democratiche, di una visione pluralistica dell’uomo e della società, di una teologia.
Quell’anticorpo di cui sono privi coloro che, ingannando se stessi, si credono titolati a uccidere in nome di un Dio di cui bestemmiano il nome di Clemente e Misericordioso; coloro che fanno coraggio alla propria codardia con quel grido «Dio è grande», che è il grido dei redenti e non degli assassini di inermi.
Di questi assassini se ne sono visti in giro parecchi, in Europa: quelli che sparavano in testa ai bambini ebrei di Tolosa, che mitragliavano i visitatori del museo ebraico di Bruxelles e che ieri sono andati a sparare alla cosa più ebraica che ci sia — il gusto dissacrante dell’ironia.
Può darsi che questi macellai abbiano studiato in un’Europa che insegna poco e male le due radici della propria convivenza. Le misure antiterrorismo possono difendere, finché riescono, capi di Stato, autorità religiose, obiettivi «sensibili». Ma l’unica cosa che può proteggere una società è la confluenza di due movimenti.
Uno viene dalla teologia medievale. Nel 1141-1142, Pietro Abelardo scrive il suo ultimo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano , nel quale l’arbitro è un filosofo, secondo alcuni lettori portatore di un aristotelismo islamico: e davanti all’ebreo che vanta il dono della legge e la pazienza del popolo scelto da Dio, davanti al cristiano che vanta la capacità della morale cristiana di portare l’uomo ai limiti della sua perfettibilità, deduce che — in sostanza — è «una cosa buona, quella che porta vantaggio a uno, senza andare necessariamente contro l’utile o la dignità di un altro» e, viceversa, si deve chiamare male quello che si oppone necessariamente al vantaggio o al decoro di un altro».
L’altra radice viene dalla filosofia illuminista. Gotthold Ephraim Lessing scrive il dramma Nathan il saggio nel 1779.
Il protagonista racconta al Saladino la famosa parabola dei tre anelli, già nota al Boccaccio: il padre, che non vuole «sopportare la tirannia di un solo anello in casa sua», consegna ai tre figli tre anelli identici, pegno del suo amore e promessa di virtù in chi li porta.
Davanti a quest’idea — l’idea cioè che sia identica la verità di ciascuno dei tre grandi monoteismi abramitici — il Saladino reagisce, osservando che le differenze fra le manifestazioni di fede sono vistose. Ma, come spiega Nathan: posso io credere ai miei padri meno che tu ai tuoi? O viceversa? Posso forse pretendere che tu, per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna? O viceversa?
Parole, si dirà: irrilevanti per chi oggi dà la caccia agli stragisti di Parigi o per chi deve pensare rapidissimamente e con una qualche esperienza a come liquidare le decine di giovani che, espatriati per essere formati come tagliagole, sono pronti a tornare avendo perso anima, fede e cervello.
Ma se non ci si appella a queste parole, se non si torna a pensare che la cultura è questa, perderemo il nostro anticorpo civile: diventeremo senza accorgercene i teorici di una discriminazione religiosa che ci perderà, i pantofolai sostenitori di una crociata di cui pagheranno altri il prezzo.
E prima o poi anche nelle nostre orecchie, come in quelle di una quota piccola ma sanguinaria di musulmani, tornerà a farsi sentire il diabolico sussurro che dice «Dio lo vuole», e con la sua seduzione ruba le anime alla redenzione, perverte la fede di un Abramo sempre più sconsolato nel vedere i suoi nipoti ridotti così, a manovalanza della morte, a fattorini della paura.
Di questi assassini se ne sono visti in giro parecchi, in Europa: quelli che sparavano in testa ai bambini ebrei di Tolosa, che mitragliavano i visitatori del museo ebraico di Bruxelles e che ieri sono andati a sparare alla cosa più ebraica che ci sia — il gusto dissacrante dell’ironia.
Può darsi che questi macellai abbiano studiato in un’Europa che insegna poco e male le due radici della propria convivenza. Le misure antiterrorismo possono difendere, finché riescono, capi di Stato, autorità religiose, obiettivi «sensibili». Ma l’unica cosa che può proteggere una società è la confluenza di due movimenti.
Uno viene dalla teologia medievale. Nel 1141-1142, Pietro Abelardo scrive il suo ultimo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano , nel quale l’arbitro è un filosofo, secondo alcuni lettori portatore di un aristotelismo islamico: e davanti all’ebreo che vanta il dono della legge e la pazienza del popolo scelto da Dio, davanti al cristiano che vanta la capacità della morale cristiana di portare l’uomo ai limiti della sua perfettibilità, deduce che — in sostanza — è «una cosa buona, quella che porta vantaggio a uno, senza andare necessariamente contro l’utile o la dignità di un altro» e, viceversa, si deve chiamare male quello che si oppone necessariamente al vantaggio o al decoro di un altro».
L’altra radice viene dalla filosofia illuminista. Gotthold Ephraim Lessing scrive il dramma Nathan il saggio nel 1779.
Il protagonista racconta al Saladino la famosa parabola dei tre anelli, già nota al Boccaccio: il padre, che non vuole «sopportare la tirannia di un solo anello in casa sua», consegna ai tre figli tre anelli identici, pegno del suo amore e promessa di virtù in chi li porta.
Davanti a quest’idea — l’idea cioè che sia identica la verità di ciascuno dei tre grandi monoteismi abramitici — il Saladino reagisce, osservando che le differenze fra le manifestazioni di fede sono vistose. Ma, come spiega Nathan: posso io credere ai miei padri meno che tu ai tuoi? O viceversa? Posso forse pretendere che tu, per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna? O viceversa?
Parole, si dirà: irrilevanti per chi oggi dà la caccia agli stragisti di Parigi o per chi deve pensare rapidissimamente e con una qualche esperienza a come liquidare le decine di giovani che, espatriati per essere formati come tagliagole, sono pronti a tornare avendo perso anima, fede e cervello.
Ma se non ci si appella a queste parole, se non si torna a pensare che la cultura è questa, perderemo il nostro anticorpo civile: diventeremo senza accorgercene i teorici di una discriminazione religiosa che ci perderà, i pantofolai sostenitori di una crociata di cui pagheranno altri il prezzo.
E prima o poi anche nelle nostre orecchie, come in quelle di una quota piccola ma sanguinaria di musulmani, tornerà a farsi sentire il diabolico sussurro che dice «Dio lo vuole», e con la sua seduzione ruba le anime alla redenzione, perverte la fede di un Abramo sempre più sconsolato nel vedere i suoi nipoti ridotti così, a manovalanza della morte, a fattorini della paura.