Ventidue dicembre 1947. È pomeriggio. Dinanzi a Montecitorio, sotto la scalinata, va addensandosi una piccola folla trepidante. Gruppi di liceali, e uomini con la barba mal rasata, e donne strette in un paltò di panno scuro lungo fino ai piedi, come s’usava allora. Infine il campanone di Montecitorio suona a distesa nella piazza, mentre la facciata del vecchio palazzo s’accende di centinaia di luci come una luminaria. Luci e bagliori anche dentro l’aula, dove i fotografi fanno scattare le loro macchine al lampo di magnesio. Con 453 voti favorevoli e 62 contrari, è appena stata battezzata la Costituzione della nuova Repubblica italiana.
Ecco, avrei voluto esserci, in quell’inverno romano. Anche se le cronache lo descrivono rigido, piovoso, spazzolato dalla tramontana. Anche se a quel tempo una tazzina di caffè era un lusso per pochi, e d’altronde tra il 1938 e il 1945 gli italiani avevano perso metà del proprio reddito. Anche se una casa su quattro era priva di cucina, una su due mancava dell’acqua corrente, tre su quattro non avevano neppure il bagno. Ma sta di fatto che in quest’agosto del 2009 il caldo sta squagliando il nostro tessuto connettivo, la ragnatela d’assonanze e consonanze che fa d’un aggregato umano una nazione. Guelfi a incrociar la spada con i ghibellini per la pillola Ru486 o per l’ora di religione, partito del Sud dopo il partito del Nord, dialetti obbligatori, l’inno nazionale preso a calci, corporazioni armate l’una contro l’altra, gabbie salariali, altrettante gabbie per i cittadini e per i non cittadini, per i figli d’arte e per i figli di nessuno. L’Italia è una penisola, si trova scritto nei libri di geografia. No, è diventata un arcipelago, una polvere di isole arroccate e con i porti chiusi, dove il tuo vicino è anche il tuo più irriducibile nemico.
Non che i costituenti, durante quella vigilia di Natale, suonassero tutti il medesimo spartito. Se è per questo, non cantava all’unisono nemmeno il popolo italiano. La guerra fascista , e poi la guerra civile antifascista, avevano lasciato sul terreno macerie morali e materiali. Nel dopoguerra tra i democristiani di De Gasperi e i comunisti di Togliatti c’era molta più distanza – in termini di programmi, di strategie politiche, di concezioni sociali e culturali – di quanta oggi ne corra tra Franceschini e Berlusconi. Sfogliando gli otto volumoni grigi che raccolgono i lavori dell’Assemblea costituente, chiunque può riascoltare l’eco di quei dibattiti infuocati. Talvolta con i due partiti maggiori schierati su trincee contrapposte, come accadde per la Corte costituzionale e le regioni. Talvolta con la miccia del dissenso accesa dentro lo stesso fronte, a dividere i compagni e gli alleati: avvenne per l’articolo 7 sui Patti lateranensi, quando Nenni si dissociò aspramente dal voto favorevole deciso da Togliatti.
Del resto, nemmeno il risultato complessivo di quei 18 mesi di lavoro – la Carta democratica – passò indenne da critiche e censure. E a pronunziarle non fu soltanto la stampa di destra, come il Tempo di Roma, che l’indomani bersagliò a colpi di fucile la troppa solennità dell’evento, ironizzando su ingegneri e architetti che s’applaudono da soli. Si può rievocare per esempio Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri, che paragonò il testo venuto fuori dal confronto tra i partiti a un libertino di mezza età, cui un’amante giovane abbia strappato via tutti i capelli bianchi per ringiovanirlo, mentre l’anziana moglie gli abbia tolto quelli neri per renderlo più vecchio. Col risultato che il libertino rimase infine con la testa completamente calva. E Salvemini? Un «pateracchio», così aveva definito la nuova Costituzione. E Croce? Un compromesso di basso profilo, «un reciproco concedere e ottenere».
Eppure è di quel dialogo che adesso s’avverte la mancanza. Di quella capacità d’ascoltare le ragioni altrui, senza sopraffarle gonfiando tendini e bicipiti. Dopotutto sessant’anni addietro ci riuscirono non solo filosovietici e filoamericani, ma inoltre le opposte tifoserie della Repubblica e della monarchia, nonostante il referendum lacerante del 2 giugno 1946. Tant’è che i primi due presidenti della neonata Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi. Insomma, quei nostri lontani genitori arrivarono a siglare un compromesso, e i compromessi – diceva Kelsen – sono l’essenza della democrazia parlamentare. Ci arrivarono per i loro meriti specifici, però anche perché là fuori gli astanti ne rispettarono il lavoro, proteggendolo con una cortina di silenzio. Sui giornali di quattro pagine che si pubblicavano a quell’epoca, le notizie sulle scelte costituzionali che l’assemblea veniva maturando erano scisse dalla cronaca politica, spesso incorniciate in un riquadro. E infatti il comunista Terracini continuò a guidare con vigore l’opera dei costituenti pur dopo la frattura con De Gasperi; senza veti, senza alcuna delegittimazione.
Può darsi che questo racconto suoni un po’ retorico. Sarebbe il peggior torto alla memoria, imbalsamare il morto per occultarne i lineamenti. Ma è un dato di fatto che quell’inverno l’unità prevalse sulla divisione. Anche il testo della Carta riflette un’impostazione unica, benché tre bicamerali e innumerevoli altri tentativi abbiano poi cercato d’amputarne la seconda parte. La prova? Ne offrirò una su cui anni addietro mi aprì gli occhi un vecchio professore, che nella Prima Repubblica fu anche un politico importante. Quanti erano gli articoli cuciti sul vestito della Costituzione? 139: dunque uno, tre, nove. E le disposizioni transitorie e finali, che fanno da appendice alla Carta costituzionale vera e propria? Quelle sono 18, altro multiplo di tre. Non è curioso? Tanto più a considerare che la media dei commi per articolo fa esattamente tre; che la topografia della Costituzione di nuovo si divide in tre, con un incipit sui principi fondamentali staccato dalla prima e dalla seconda parte; che i principi fondamentali a loro volta corrono lungo 12 articoli, un altro multiplo di tre; che fra tali principi la disposizione più pregnante, quella più carica di sostanza politica e civile, è senza dubbio l’articolo 3, dove si situa la garanzia dell’eguaglianza; che la seconda parte del documento costituzionale si disloca per sei titoli: ancora un doppio tre; che il titolo terzo (quello sul governo) si divide in tre sezioni.
Soltanto un caso, una somma di fortuite coincidenze? Può darsi. Però il tre, sintesi del pari e del dispari, era considerato dai pitagorici il numero perfetto; il suo potere sacro fu riconosciuto inoltre dalla kabbalà, la cui dottrina si formò del resto sotto l’influsso della scuola neo-pitagorica; e per tradizione la massoneria ha sempre strizzato l’occhio alle scienze cabalistiche. Forse fu anche questo il collante dei costituenti, o almeno del comitato di redazione che assemblò alla fine il testo.
Ma il cemento che li teneva insieme era inoltre il gusto per la storia, l’educazione ai classici, in una parola la cultura. La rivoluzione francese venne ricordata per 64 volte nel corso del dibattito; Mazzini e Cavour ottennero un centinaio di citazioni a testa; in sette casi risuonò perfino il nome di Maometto. E c’era infine, a unire donne e uomini così diversi per fede politica, per età, per estrazione sociale – di qua i “professorini” cattolici come Moro e Dossetti, di là un bracciante agricolo come Di Vittorio – un vissuto comune, un’esperienza affratellante. La guerra, ma ancora prima il rifiuto della camicia nera. Difatti le galere fasciste si aprirono per Gramsci e per Pertini, ma anche per De Gasperi. A Napoli fu devastata la casa di Benedetto Croce al pari di quella di Arturo Labriola. E don Sturzo sperimentò l’esilio non diversamente da Togliatti.
Insomma a quella generazione capitò in sorte d’attraversare un tornante della storia, uno di quei frangenti eccezionali nella vita dei popoli da cui dipende la loro libertà, la pace, il benessere, l’indipendenza nazionale. Furono speciali loro, ma soprattutto fu speciale l’epoca in cui vissero. Da qui il diritto di forgiare istituzioni vincolanti per le generazioni che verranno dopo: un privilegio che agli uomini generalmente non è dato – diceva John Adams, il secondo presidente americano – così come nessuno può mai scegliersi la terra su cui nasce. Un tempo eccezionale genera tempre eccezionali; dalle grandi tragedie collettive sorgono i popoli più grandi, più coesi. Significa che dobbiamo augurarci un’altra guerra per ritrovare la nostra identità perduta? Se il prezzo è così alto, allora no, quel giorno non vorrei affatto viverlo. Ma c’è invece un momento del 22 dicembre 1947 che mi sarebbe piaciuto assaporare, magari intabarrato in mezzo al pubblico nelle tribune di Montecitorio, sbirciando dall’alto la cerimonia conclusiva.
Fu quando Meuccio Ruini – che aveva presieduto la commissione dei 75, ossia la fucina in cui venne coniato il progetto di Costituzione – consegnò nelle mani di Umberto Terracini il testo. Ecco, in quell’istante un gruppo di garibaldini, vecchi reduci della battaglia di Domokos (1897) tra greci e turchi, che avevano preso posto su nelle tribune con le loro chiome incanutite e la camicia rossa, intonò l’inno di Mameli. Lui, Terracini, fu preso alla sprovvista dal fuoriprogramma, e reagì con imbarazzo; ma subito vi s’associò l’intera assemblea, e anche il pubblico cominciò a cantare il nostro inno nazionale. Così gli italiani seppero già d’avere la loro Costituzione, benché ancora i costituenti non l’avessero votata. Teniamocela cara.
* Michele Ainis insegna Istituzioni di diritto pubblico all’Università Roma Tre
michele.ainis@uniroma3.it
ndr: dall’11 agosto, il quotidiano il Sole 24 ore ospita la rubrica “il giorno che avresti voluto vivere”. Ieri è stato pubblicato l’intervento di Michele Ainis, relativo al 22 dicembre 1947, giorno in cui fu approvata la nostra Carta costituente. Un desiderio “opportuno”, in questo agosto arroventato dalle polemiche leghiste su dialetti, bandiere regionali, gabbie salariali…