Mark Zuckerberg, sempre lui. L’inventore del social network più importante del pianeta (1,3 miliardi di iscritti, circa 12 miliardi di messaggi al giorno, 40 minuti al giorno di stazionamento medio sulle pagine da parte degli utenti, 1,3 miliardi di dollari come utile trimestrale nel 2014…). Se fosse una nazione, sarebbe la seconda nazione al mondo dopo la Cina, e Zuckerberg se la potrebbe comprare. Quando parla, lo si sente. Quando decide qualcosa, lo fa con attenzione. O almeno, questo è quello che tutti speriamo. Se infatti domani lanciasse l’idea che per accedere a Facebook dovremmo tutti farci tatuare una F sulla fronte, chi esiterebbe?
Ieri, per fortuna, non ha parlato di tatuaggi, ma di quacosa di altrettanto bizzarro, oltre che antico: i libri. Dal luogo della contemporaneità per eccellenza, dall’intelligenza più smart e 2.0, arriva la proposta di creare un gigantesco club del libro. Attraverso l’esercizio di una buona pratica, che Mark Zuckerberg si è dato tra gli obiettivi da perseguire nel nuovo anno: leggere almeno due libri al mese. Una proposta che fatta da un intellettuale della vecchia Europa, un premio Nobel dai capelli bianchi, un insegnante di liceo, sarebbe stata spernacchiata. Considerata retorica o addirittura controproducente. Chiedere alle persone di leggere? Ma non capite che è il modo migliore per fargli passare la voglia? Bisogna far finta di niente e aspettare piuttosto che qualcuno, su un libro, ci inciampi. E lo tiri su, e cominci a leggerlo con distrazione e poi zitti, non fare commenti. Forse così, forse se non ci pensa, magari si appassiona.
Invece Mark Zuckerberg, abituato a parlare con gente cresciuta affacciandosi a uno schermo prima che a qualsiasi finestra — e che probabilmente considera la letteratura popolare quanto l’attinologia (lo studio degli effetti medico-biologici delle radiazioni luminose, ndr) — non si è preoccupato di essere retorico o controproducente. Ha chiesto ai suoi utenti di aiutarlo, di fare proposte, di segnalare libri interessanti. La prima l’ha fatta lui, proponendo un saggio, pubblicato anche in Italia da Mondadori, La fine del potere, sottotitolo Dai consigli di amministrazione ai campi di battaglia, dalle chiese agli stati, perché il potere non è più quello di un tempo , scritto da un autore venezuelano, Moises Naim. Ha immaginato che da queste letture potranno nascere discussioni, e riflessioni. Non si è preoccupato del fatto che gli uffici stampa delle case editrici, e gli editori stessi, saranno da domani pronti a fare sacrifici umani, pur di garantirsi uno di quei due posti mensili. Né di agganciare tutta questa faccenda ad Amazon, o magari a qualche avversario pronto a scalzare il monopolio della vendita dei libri sulla rete, avversario che magari potrà essere, dopodomani, lui stesso. Ha solo detto leggiamo due libri al mese e vediamo l’effetto che fa.
Ricordo per i fortunati che lo avessero dimenticato che, secondo le statistiche attuali, un italiano su due non legge neanche un libro all’anno. Il 18 per cento di noi ne legge da 4 a 11, e il 6 per cento viene considerato un “lettore forte” perché legge almeno un libro al mese. Uno, non due. In una celebre intervista di qualche anno fa, Philip Roth disse che il numero di lettori di romanzi nel giro di pochissimo tempo sarebbe diminuito così tanto da essere paragonato all’attuale numero dei lettori di poesia. Pochissimi eccentrici, feticisti dai gusti incomprensibili ai più. I libri, si sgolano gli editori, non si vendono. Le storie, è ormai argomento inoppugnabile, non abitano più tra le pagine, ma nelle serie tv, nelle sceneggiature dei videogiochi. Basta vedere dove va il denaro, segui il successo e scoprirai chi sono oggi i veri raccontatori. Lo predichiamo tutti, e ci strappiamo i capelli.
Ma. Se qualcuno una decina di anni fa ci avesse detto che milioni di persone avrebbero passato le loro serate davanti alla televisione a vedere gare di scaloppine e profiteroles lo avremmo trattato come uno scimunito. Eppure è successo, perchè siamo diventati tutti cuochi. Il nostro Zeitgeist si è incarnato molto più nella bistecca alla Bismarck che nel Kulturkampf di Bismarck. Succede, ogni epoca ha i suoi miti e le sue predilezioni. E la televisione li moltiplica fino all’isteria. Ma se la stessa persona ci avessero profetizzato che i maggiori successi in rete sarebbero stati video nei quali ti spiegano come passarti lo smalto sulle unghie o imbranati che ballano in maniera improbabile o gattini, ci saremmo addirittura offesi, convinti di essere migliori. Cuochi sì, ma così stupidi no. In che modo questa mediocrità ci può rappresentare, che cosa dirà di noi la storia? Il punto è che la rete, e questo Mark Zuckerberg lo sa molto bene, non è la televisione. Non è il messaggio e non è neanche l’altoparlante al quale siamo abituati, con cui siamo cresciuti. Lo dimostra il fatto che quando in televisione si cerca di parlare di libri, quando si prova a usare format pensati per altre attività applicandoli agli scrittori, non si ottengono grandi risultati. La rete invece è come un’enorme incubatrice di quello che siamo e non osiamo dire ad alta voce. Una specie di inconscio collettivo, di mostruoso “es” che fatica a essere domato, indirizzato. Tutto il contrario del luogo di libertà espressiva che certi predicatori populisti vorrebbero farci credere. In questo inferno ribollente la letteratura potrà forse trovare un ruolo, è questo che ha immaginato il fondatore di Facebook? C’è una cosa che funziona sempre moltissimo su internet: le classifiche. Qual è il miglior film, il miglior bacio al cinema, il cane che si comporta in maniera più scema, e perfino — come accaduto nell’immenso passaparola social planetario di qualche mese fa, un grandissimo successo — quali sono i cento libri che ci hanno cambiato la vita. Ogni volta che un sondaggio del genere viene lanciato, il misterioso popolo della rete partecipa con entusiasmo. Per due ragioni, perché è un gioco nel quale l’utente ha un ruolo attivo (e la rete è senza dubbio il mezzo fondato sull’idea della partecipazione e non della fruizione passiva) e poi perché condividere quello che amiamo è un modo sentimentale, emotivo di decifrare il mondo. Che somiglia molto a quello che fanno gli scrittori quando scrivono un romanzo, e forse anche quando si occupano di saggistica, come lo scrittore venezuelanoproposto da Zuckerberg.
Un libro è infatti un’architettura di parole, congegnata attraverso la tecnica, che emerge dalla solitudine di un essere umano. Che, una volta compiuta, viene messa a disposizione dei lettori. Se Zuckerberg del suo club di lettura saprà fare un’impresa commerciale, non sarà quindi soltanto in virtù del suo innegabile talento, ma del fatto che, forse per la prima volta nella storia, esiste uno spazio dove i libri se la giocano alla pari coi cuochi e persino i calciatori. Anzi, forse sono addirittura avvantaggiati.