Telo confidano a mezza voce i penalisti: «Ci sono aziende che ormai non possono più lavorare perché uno dei soci è pregiudicato, e ci chiamano per un consiglio, ma che possiamo fare?». Lo sussurrano informalmente i poliziotti: «I mafiosi qui hanno finito di scherzare e sentirsi impuniti, li possiamo toccare sui soldi, come insegnava Giovanni Falcone». Chi ufficialmente potrebbe parlare, tace in pubblico. Ma il dato di fatto è certo. È cominciata nei territori del Nord una guerra dura e silenziosa alla mafia imprenditrice, alla “zona grigia”. E l’Expo di Milano è la trincea più avanzata.
Repubblica ha potuto osservare alcuni documenti riservati. Ne ha tratto cinque episodi, sufficienti a raccontare un “sistema”. Un’impresa di costruzioni era entrata nella White List delle aziende affidabili per i cantieri Expo e poteva stare tranquilla. Invece è finita “out”: mandava sul cantiere della Tangenziale est esterna auto, camion e ruspe con le targhe clonate. Cioè affidava ad altri imprenditori, molto meno “puliti”, gli importanti lavori che aveva ottenuto. E per evitare i controlli, aveva ideato la “furbata”: mettere le proprie targhe, autorizzate, su mezzi non autorizzati, e guidati da dipendenti d’aziende che erano state in qualche caso già cacciate dai cantieri. Via tutti, dunque, senza possibilità di rientrare.
Un’altra impresa gode — è facile “apparecchiare” le carte — della liberatoria antimafia. Ma s’indaga lo stesso: una delle titolari è sposata con un detenuto, esperto nel traffico internazionale di stupefacenti. Il capitale sociale serve, viene accertato, «alle spese legali e al sostentamento dei familiari », e questo motivo basta e avanza per sbattere fuori dai cantieri quest’azienda. E anche la terza azienda appare a prima vista specchiata, ma ha assunto — attenzione: i detective solitamente sono scettici riguardo alle coincidenze — esclusivamente operai che arrivano da un piccolo paese del crotonese. È una forma di campanilismo oppure c’è altro? E chi sono questi lavoratori? Vengono censiti e “radiografati”: o sono uomini con precedenti penali, oppure risultano legati (si legge) «a cosche di grande spessore criminale». Tra i “paesani”, infatti, c’è chi si occupa di prostituzione, chi viene trovato con armi e, un giorno, sul cantiere appare, nonostante non c’entri nulla, un pregiudicato condannato per il 416 bis, l’associazione mafiosa. Via dall’Expo e dintorni anche questa ditta.
La quarta azienda è a conduzione familiare, ha contratti sia con la metropolitana di Milano che con la tangenziale. Attende il sì per entrare nella White List ed è tutto all’insegna del «no problem», finché l’amministratore unico «viene trovato in possesso di due pistole con matricola abrasa e un numero consistente di cartucce». Emerge una parentela: questo “amministratore calibro 9”, sino ad allora incensurato, è nato nella stessa famiglia di un capomafia «strettamente collegato — così nel documento riservato — ai vertici di Cosa Nostra». Via anche questa. E anche la quinta impresa è a conduzione familiare: viene gestita da due giovani fratelli, immacolati, mai un guaio con la legge. Si occupano del “movimento terra”. Sono anche e costano poco. Purtroppo per i due, è il papà che fa squillare il campanello d’allarme. Ha un fascicolo penale alto come un vocabolario e frequenta moltissimi pregiudicati. Le colpe dei padri ricadono dunque sui figli — e tra poco spiegheremo perché a Milano sta passando questo principio che può far discutere — e vanno cacciati. Questo è l’ordine della prefettura, la chiamano in burocratese «interdittiva».
Contro questa mano pesante dello Stato, alcune imprese sono scese in campo e hanno combattuto i divieti con l’arma della legalità. Hanno fatto ricorso al Tar, ma hanno perso. Consiglio di Stato, tappa successiva: hanno perso anche lì. Dunque, siamo di fronte ad un assoluto inedito: che cosa sta succedendo a Milano? Che cosa costringe il resto dell’Italia dell’antimafia seria a guardare con grandissima attenzione quello che succede intorno a Expo?
Un rapido passo indietro. L’Italia aveva dichiarato al mondo che l’Expo sarà un evento “mafia free”. Su questo slogan hanno convinto alcuni scettici, tra i quali gli americani. Ma lo slogan “mafia-free” è la sintesi di un concetto che appare come una rivoluzione copernicana della lotta alla mafia imprenditrice. Lo possiamo riassumere così: «Se “appalti pubblici” vuol dire (anche) soldi pubblici che dallo Stato vanno alle aziende, spetta o no allo Stato impedire che i “suoi” denari possano entrare nelle casse di imprese che non convincono?».
La prefettura di corso Monforte è diventata una specie di avamposto avanzato della nuova guerra. Non dichiarata mai apertamente, mai ufficialmente. Ma in corso. Sono state infatti emesse 68 «interdittive», che proibiscono di partecipare ai lavori. I divieti riguardano 48 imprese sulle 367 che sono state controllate: vuol dire che il 13 %, più di una su 8, non supera l’esame.
«Se un privato accetta queste aziende, sono affari del privato, ma lo Stato vuole che i suoi cantieri siano cantieri senza criminali. E noi — dicono dalla prefettura — non abbiamo bisogno delle certezze che ci sono nel diritto penale per stabilire che un’azienda sia permeabile dalle organizzazioni criminali. Cioè, possiamo fare a meno degli elementi indiziari che possono portare in carcere, ma non per questo abbiamo meno scrupoli. Seguiamo alcuni “indicatori” e in questo modo impediamo ai soldi pubblici di finire in mani non corrette». Ed è così che «Ci sono state più interdittive a Milano che sulla Salerno-Reggio Calabria», ha detto Raffaele Cantone, presidente dell’Autority anticorruzione.
Funziona a Milano una sorta di gruppo misto — composto da antimafia e Asl, ispettorato del lavoro, vigili e funzionari della prefettura — che sta mettendo in ginocchio i “manager squali”. Questa pattuglia interforze va sui cantieri, ma dietro le quinte lavorano altri due gruppi più specializzati, il Gia (gruppo antimafia) e il Gicex (Gruppo Interforze Centrale per l’Expo 2015). Appena si accende un allarme rosso — e può essere un allarme “banale”: mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del cantiere, presenza di personale non identificato e autorizzato, garbugli amministrativi, uso disinvolto del badge — l’azienda viene “attenzionata” dal gruppo misto e passata al setaccio dai detective, che possono incrociare le varie banche dati, da quelle del ministero dell’Interno a quelle “bancarie”.
Un lavoro certosino: sino alle vacanze di Natale escluse, sono stati controllati 1.436 tra auto, carri, e ruspe, 3.099 persone, 367 società. C’è stata un’evoluzione continua dei controlli: nel 2009 c’erano stati due accessi nei cantieri, tre nel 2010, sette nel 2011, sedici nel 2012, che diventano 18 l’anno dopo, ma nell’anno 2014, quando il prefetto Francesco Paolo Tronca è ormai convinto dell’efficacia della «procedura alla milanese» diventano 54: «Le forze attive, liberate dal la- voro burocratico che si è accollata la prefettura — hanno raccontato dalla prefettura milanese lo scorso maggio alla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi — eseguono cinque accessi al mese sui cantieri, che consentono di controllare plurime aziende (…). Coloro che adesso fanno cinque controlli al mese, prima stavano alla scrivania, oggi stanno nel fango del cantiere».
È questo cambiamento “amministrativo” nel metodo di contrasto ai clan e ai loro affari a segnare una svolta concreta. Le voci “milanesi” stanno circolando tra varie prefetture e gli apparati dello Stato. Questo metodo, viene detto, può estendersi ovunque, si può azzerare («legalmente, facilmente») la possibilità delle aziende grigie di avvicinarsi al “piatto ricco” degli appalti pubblici.
Siamo agli inizi, dunque, di nuovi metodi di contrasto alle mafie: di una questione che da Milano può rapidamente scendere lungo la penisola, per arrivare alle regioni al alta densità mafiosa passando dalle nuove emergenze di Mafia Capitale. E un altro di questi “sistemi” è stato potenziato dalla procura milanese.
Qui, è noto, l’antimafia ha condotto varie inchieste che hanno portato in carcere circa 400 persone legate ai clan calabresi e prodotto documenti impressionanti, che hanno fatto il giro del mondo. Come la votazione per alzata di mano del capo-rappresentante di tutti i “locali” (cosche) in Lombardia. O come il giuramento di affiliazione alla ‘ndrangheta nel nome di Mazzini, La Marmora e Garibaldi. Ma accanto ai blitz, è stata avviata una strategia mirata a colpire il professionista che sa di lavorare per i mafiosi, ma finge di non saperlo, di non essersene accorto. Il commercialista che prestava lo studio per le riunioni d’affari (inchiesta Valle), l’ufficiale dei carabinieri carico di encomi che in pensione aveva aperto l’agenzia privata d’investigazioni e security (caso Tnt), il prestanome degli usurai, l’addetto alla dogana: tutti questi (e altri) non erano imputabili, ma sono stati dichiarati «sorvegliati speciali». Cioè hanno avuto il divieto di uscire prima delle 7 del mattino e di non rincasare dopo le 21, non possono avere armi e non devono «frequentare pregiudicati».
Una sanzione, ma anche un’umiliazione: come spiegare nella cerchia di amici come mai non si va più a cena fuori? La richiesta delle misure di prevenzione è costante e la strategia ha un’altra appendice, che riguarda le banche. Alcuni direttori sapevano di trattare con i mafiosi? Sì, allora gli istituti di credito sono stati sospesi nei rapporti con questi clienti, al posto del direttore colluso è arrivato un curatore: è successo già tre volte.
Ilda Boccasini, procuratore aggiunto antimafia, con a fianco il procuratore capo Bruti Liberati, dice: «O si sta con la mafia o si sta con lo Stato». In Italia, a cominciare da Milano, sembra che le sfumature di grigio sporco non siano più di moda.