Se nell’ultimo «messaggio augurale» agli italiani Giorgio Napolitano ha voluto annoverare tra «le più gravi patologie» del Paese «una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzio nale», è per indicare un cammino da compiere. Una strada che sarebbe finalmente ora di imboccare, a più di vent’anni dalle inchieste di Mani pulite sull’onda delle quali nacque la cosiddetta Seconda Repubblica. Che gran parte del percorso sia ancora da compiere non è certo un buon bilancio, ma questo non può diventare l’alibi per non guardare avanti e procedere con quel che c’è da fare.
Negli stessi giorni in cui gli inquirenti romani citati dal presidente della Repubblica (che ancora ieri ha invocato un «deciso sforzo nella lotta alla criminalità nelle sue svariate forme», compresa quella che passa per tangenti e mazzette , nel suo messaggio a papa Francesco) svelavano un malaffare a cui hanno attribuito i connotati del «metodo mafioso», l’associazione Transparency International rendeva noto l’ultimo rapporto sull’indice di percezione della corruzione che vede l’Italia al 69° posto della classifica mondiale, ultimo Paese in Europa insieme a Romania, Grecia e Bulgaria. Un dato poco rassicurante, che si aggiunge all’allarme lanciato dall’Unione Europea nel febbraio scorso, ricordato ieri da Il Sole 24 Ore.
Matteo Renzi ha appena promesso una svolta e annunciato un nuovo disegno di legge per introdurre aggiustamenti che, oltre a soddisfare gli slogan lanciati dal premier, possono contribuire a meglio reprimere il fenomeno e in certa misura — si spera, attraverso qualche forma di deterrenza — a prevenirlo. Ma siamo ai primi passi. E resta l’incognita del dibattito parlamentare, che non si annuncia agevole per una maggioranza di centro-destra-sinistra che in tema di giustizia s’è sempre mostrata tutt’altro che compatta. Tuttavia sarebbe il caso di arrivare a un’approvazione rapida della riforma annunciata, se possibile migliorandola, attraverso l’impegno concreto dei partiti e magari una corsia preferenziale.
I magistrati hanno manifestato le loro perplessità, e suggerito soluzioni alternative o aggiunte per meglio poter svolgere il proprio lavoro di indagine e di giudizio. Archiviarle con l’invito alle toghe di fare meno interviste e più sentenze serve a poco; spesso anche le interviste (soprattutto degli addetti ai lavori) aiutano a comprendere la sostanza dei problemi e affrontarli nel merito, oltre che nei titoli dei giornali.
La proposta di prevedere sconti di pena per i «pentiti» della corruzione, ad esempio, non viene solo da pubblici ministeri e giudici, ma anche da esponenti del Pd (e della stessa corrente di Renzi): spezzare il legame di omertà tra chi indebitamente paga e chi viene indebitamente pagato è un modo per raggiungere più facilmente la prova del patto occulto, e per rendere più conveniente la denuncia. Ed è un appello costantemente ripetuto dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffele Cantone, magistrato della cui nomina il capo del governo fa continuo sfoggio per dimostrare la determinazione dell’esecutivo su questo terreno. Ma allora perché non dare seguito ai suoi consigli?
Il meccanismo «premiale» era contenuto nei disegni di legge entrati al Consiglio dei ministri di metà dicembre, ma poi è scomparso. Evidentemente per contrasti tra i partiti della maggioranza, che sarebbe bene superare durante la discussione per trasformare la proposta in legge. Vedremo se, almeno stavolta, alle parole seguiranno i fatti.
Lo Stato, attraverso il potere giudiziario, ha il compito di scovare e punire la criminalità economica; la società civile dovrebbe trovare lo stimolo e l’energia per considerare la corruzione un disvalore, anziché un’occasione per rimuovere gli ostacoli; alle forze politiche spetta di facilitare questo percorso promuovendo leggi che aiutino a far emergere i traffici illeciti consumati sottotraccia. Sono le tre componenti chiamate in causa da Napolitano, affinché lavorino «insieme, senza eccezione alcuna» per sradicare la malapianta e risalire la china. La speranza è che almeno ci provino seriamente, caricandosi ciascuno delle proprie responsabilità. Altrimenti saremmo di fronte ai soliti richiami caduti nel vuoto e all’ennesima occasione persa.
Matteo Renzi ha appena promesso una svolta e annunciato un nuovo disegno di legge per introdurre aggiustamenti che, oltre a soddisfare gli slogan lanciati dal premier, possono contribuire a meglio reprimere il fenomeno e in certa misura — si spera, attraverso qualche forma di deterrenza — a prevenirlo. Ma siamo ai primi passi. E resta l’incognita del dibattito parlamentare, che non si annuncia agevole per una maggioranza di centro-destra-sinistra che in tema di giustizia s’è sempre mostrata tutt’altro che compatta. Tuttavia sarebbe il caso di arrivare a un’approvazione rapida della riforma annunciata, se possibile migliorandola, attraverso l’impegno concreto dei partiti e magari una corsia preferenziale.
I magistrati hanno manifestato le loro perplessità, e suggerito soluzioni alternative o aggiunte per meglio poter svolgere il proprio lavoro di indagine e di giudizio. Archiviarle con l’invito alle toghe di fare meno interviste e più sentenze serve a poco; spesso anche le interviste (soprattutto degli addetti ai lavori) aiutano a comprendere la sostanza dei problemi e affrontarli nel merito, oltre che nei titoli dei giornali.
La proposta di prevedere sconti di pena per i «pentiti» della corruzione, ad esempio, non viene solo da pubblici ministeri e giudici, ma anche da esponenti del Pd (e della stessa corrente di Renzi): spezzare il legame di omertà tra chi indebitamente paga e chi viene indebitamente pagato è un modo per raggiungere più facilmente la prova del patto occulto, e per rendere più conveniente la denuncia. Ed è un appello costantemente ripetuto dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffele Cantone, magistrato della cui nomina il capo del governo fa continuo sfoggio per dimostrare la determinazione dell’esecutivo su questo terreno. Ma allora perché non dare seguito ai suoi consigli?
Il meccanismo «premiale» era contenuto nei disegni di legge entrati al Consiglio dei ministri di metà dicembre, ma poi è scomparso. Evidentemente per contrasti tra i partiti della maggioranza, che sarebbe bene superare durante la discussione per trasformare la proposta in legge. Vedremo se, almeno stavolta, alle parole seguiranno i fatti.
Lo Stato, attraverso il potere giudiziario, ha il compito di scovare e punire la criminalità economica; la società civile dovrebbe trovare lo stimolo e l’energia per considerare la corruzione un disvalore, anziché un’occasione per rimuovere gli ostacoli; alle forze politiche spetta di facilitare questo percorso promuovendo leggi che aiutino a far emergere i traffici illeciti consumati sottotraccia. Sono le tre componenti chiamate in causa da Napolitano, affinché lavorino «insieme, senza eccezione alcuna» per sradicare la malapianta e risalire la china. La speranza è che almeno ci provino seriamente, caricandosi ciascuno delle proprie responsabilità. Altrimenti saremmo di fronte ai soliti richiami caduti nel vuoto e all’ennesima occasione persa.