La scienza ci regala una fuga dal tempo e dalla morte come non si era mai verificato nella storia, scrive Martin Wolf sul Financial Times : ogni anno guadagniamo tre mesi di vita. Ma gli effetti positivi della rivoluzione che ha cambiato la curva della sopravvivenza sembrano oscurati da uno strabismo di fondo: più che ai vantaggi di una grande conquista guardiamo ai problemi. Eppure, soltanto un secolo fa, la durata media di vita era 43 anni mentre oggi è di 79 anni per gli uomini e di 83 per le donne. In più, l’aspettativa di vita, dopo i 65 anni, è di 18 anni per gli uomini e di 22 per le donne. Un salto di qualità nella salute pubblica che meriterebbe degna celebrazione, scrive Wolf, perché la riduzione della mortalità infantile, l’uso delle vaccinazioni e degli antibiotici, i risultati prodotti dall’igiene e dalla medicina, l’aumento delle calorie nella dieta, i nuovi farmaci contro il cancro e l’ipertensione, sono una svolta epocale di cui dovremmo essere più consapevoli.
Negli ultimi cinquant’anni i progressi della scienza sono stati strepitosi. Siamo riusciti a modificare il codice della vita e a cronicizzare malattie un tempo mortali, sono stati definiti i meccanismi che caratterizzano l’invecchiamento a livello molecolare e cellulare, si sono evidenziati i pesi del fattore genico e di quello ambientale, si è preso atto dell’importanza della prevenzione, sono cambiati in meglio certi stili di vita: la lotta al fumo e quella all’inquinamento danno i primi risultati; la medicina interventistica ha fatto passi da gigante; stiamo sperimentando le staminali e le nanotecnologie. «Godiamoci questo allungamento della vita media e cerchiamo di restare il più a lungo in buona salute», dice Wolf.
La questione di fondo, davanti all’innegabile dato di fatto che azzera tante diseguaglianze e offre al mondo un’occasione per riflettere, è proprio questa. Restare in buona salute, ridurre l’incidenza e i costi delle cronicità e garantire una longevità attiva a chi oggi può beneficiare dei progressi della scienza. Una società che invecchia è una società senza futuro, si dice, perché non ha rincalzi generazionali.
Ma è una società senza passato se trascura le sue radici. Un discorso che vale soprattutto per l’Italia, con il Giappone il Paese che invecchia di più al mondo. All’inizio del secolo scorso gli ultrasessantacinquenni da noi rappresentavano il 6 per cento della popolazione: oggi sono il 21 per cento. Nel 2050 diventeranno il 30. C’è da ripensare il sistema sociosanitario, da rivedere il welfare e le politiche del lavoro. Ed è difficile conciliare la legge Fornero che innalza l’età lavorativa con l’immissione di giovani nel mercato produttivo. Ma al tempo stesso è assurdo privarsi della competenza e dell’efficienza di un sessantenne lasciandolo in panchina a carico dello Stato.
Così si procede per inerzia, scaricando sugli ospedali i costi dell’allungamento della vita e sulla previdenza gli oneri dell’avvicendamento sociale. Sono troppi gli anziani che entrano ed escono dalle porte girevoli dei pronto soccorso; e sono pochi i posti di lavoro per i giovani, che ingrossano le file dei disoccupati.
La rapidità con la quale cresce la durata della vita impone la stessa riflessione di Martin Wolf: come garantire un futuro attivo ai longevi che la scienza e la medicina hanno spinto avanti con gli anni e come evitare il collasso del sistema per i troppi costi da sostenere. La svolta, recentemente annunciata dalla Regione Lombardia, che annuncia una legge per rivedere le politiche su ospedali e territorio, è un segnale che va nella giusta direzione: più medicina sull’uscio di casa e meno cure e farmaci (spesso inutili) a carico dell’ospedale.
Fermarsi a ringraziare la scienza per aver raddoppiato la durata della vita in poco più di un secolo, come invita a fare l’economista del Financial Times , è un atto giusto e doveroso. Chi nasce oggi avrà la possibilità di vivere fino a cent’anni, ha ricordato nei giorni scorsi sul Corriere Edoardo Boncinelli.
L’Italia è messa bene, anzi male, a seconda dei punti di vista: è uno dei Paesi tra i più anziani, pigri e sovrappeso d’Europa, con tre milioni di ultraottantenni destinati a triplicare nel 2050, con 16 milioni di pensionati e un esercito di ultrasessantacinquenni pronti a raggiungere, fra trent’anni, quota 20 milioni.
Davanti a una transizione demografica di questa portata ci si deve preparare per tempo, evitando squilibri che presto presenteranno il conto, come avverte l’agenda 2015 dell’Onu che ha messo come obiettivo la riduzione delle cronicità degli anziani. Anziani sui quali pesano le patologie rese curabili dalla moderna medicina: ipertensione, depressione, ictus, infarto, Parkinson, demenza.
Servirà ancora l’aiuto della scienza, ma molto potrà fare una nuova organizzazione sociale e del lavoro, con un sistema in grado di garantire un patto fra generazioni, tra i giovani e gli «anziani inediti» con un valore prezioso: il capitale relazionale.
Negli ultimi cinquant’anni i progressi della scienza sono stati strepitosi. Siamo riusciti a modificare il codice della vita e a cronicizzare malattie un tempo mortali, sono stati definiti i meccanismi che caratterizzano l’invecchiamento a livello molecolare e cellulare, si sono evidenziati i pesi del fattore genico e di quello ambientale, si è preso atto dell’importanza della prevenzione, sono cambiati in meglio certi stili di vita: la lotta al fumo e quella all’inquinamento danno i primi risultati; la medicina interventistica ha fatto passi da gigante; stiamo sperimentando le staminali e le nanotecnologie. «Godiamoci questo allungamento della vita media e cerchiamo di restare il più a lungo in buona salute», dice Wolf.
La questione di fondo, davanti all’innegabile dato di fatto che azzera tante diseguaglianze e offre al mondo un’occasione per riflettere, è proprio questa. Restare in buona salute, ridurre l’incidenza e i costi delle cronicità e garantire una longevità attiva a chi oggi può beneficiare dei progressi della scienza. Una società che invecchia è una società senza futuro, si dice, perché non ha rincalzi generazionali.
Ma è una società senza passato se trascura le sue radici. Un discorso che vale soprattutto per l’Italia, con il Giappone il Paese che invecchia di più al mondo. All’inizio del secolo scorso gli ultrasessantacinquenni da noi rappresentavano il 6 per cento della popolazione: oggi sono il 21 per cento. Nel 2050 diventeranno il 30. C’è da ripensare il sistema sociosanitario, da rivedere il welfare e le politiche del lavoro. Ed è difficile conciliare la legge Fornero che innalza l’età lavorativa con l’immissione di giovani nel mercato produttivo. Ma al tempo stesso è assurdo privarsi della competenza e dell’efficienza di un sessantenne lasciandolo in panchina a carico dello Stato.
Così si procede per inerzia, scaricando sugli ospedali i costi dell’allungamento della vita e sulla previdenza gli oneri dell’avvicendamento sociale. Sono troppi gli anziani che entrano ed escono dalle porte girevoli dei pronto soccorso; e sono pochi i posti di lavoro per i giovani, che ingrossano le file dei disoccupati.
La rapidità con la quale cresce la durata della vita impone la stessa riflessione di Martin Wolf: come garantire un futuro attivo ai longevi che la scienza e la medicina hanno spinto avanti con gli anni e come evitare il collasso del sistema per i troppi costi da sostenere. La svolta, recentemente annunciata dalla Regione Lombardia, che annuncia una legge per rivedere le politiche su ospedali e territorio, è un segnale che va nella giusta direzione: più medicina sull’uscio di casa e meno cure e farmaci (spesso inutili) a carico dell’ospedale.
Fermarsi a ringraziare la scienza per aver raddoppiato la durata della vita in poco più di un secolo, come invita a fare l’economista del Financial Times , è un atto giusto e doveroso. Chi nasce oggi avrà la possibilità di vivere fino a cent’anni, ha ricordato nei giorni scorsi sul Corriere Edoardo Boncinelli.
L’Italia è messa bene, anzi male, a seconda dei punti di vista: è uno dei Paesi tra i più anziani, pigri e sovrappeso d’Europa, con tre milioni di ultraottantenni destinati a triplicare nel 2050, con 16 milioni di pensionati e un esercito di ultrasessantacinquenni pronti a raggiungere, fra trent’anni, quota 20 milioni.
Davanti a una transizione demografica di questa portata ci si deve preparare per tempo, evitando squilibri che presto presenteranno il conto, come avverte l’agenda 2015 dell’Onu che ha messo come obiettivo la riduzione delle cronicità degli anziani. Anziani sui quali pesano le patologie rese curabili dalla moderna medicina: ipertensione, depressione, ictus, infarto, Parkinson, demenza.
Servirà ancora l’aiuto della scienza, ma molto potrà fare una nuova organizzazione sociale e del lavoro, con un sistema in grado di garantire un patto fra generazioni, tra i giovani e gli «anziani inediti» con un valore prezioso: il capitale relazionale.