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"Muse da record" di Guido Guerzoni, Il Sole 24 Ore 07.12.14

Pochi giorni fa il Museo delle Scienze di Trento ha licenziato un succinto documento che contiene informazioni meritevoli di attenzione. Persiste, innanzitutto, il successo di pubblico; dall’inaugurazione del 19 luglio 2013 al 16 novembre 2014 sono stati registrati 702.685 ingressi, con un trend in crescita che rende plausibile il raggiungimento di un milione in due anni.
Questi risultati collocano la gemma di Renzo Piano tra i dieci musei più visitati d’Italia (il primo tra gli scientifici e l’unico situato in una città con meno di 120mila abitanti, ove il Mart di Rovereto svetta tra gli under 40mila) e meritano alcune considerazioni.
La prima riguarda il profilo del personale: se nel 1988 il Museo delle Scienze aveva 24 dipendenti – di cui 3 laureati – oggi ne ha 120, con 80 laureati, svariati dottori di ricerca e un’età media di 34,5 anni (nel 2012 quella dei 21.455 dipendenti del ministero Mibact era pari a 53,97 anni e solo il 20,86% era laureato).
La seconda concerne lo studio di fattibilità elaborato dal Muse nel 2003, tacciato di avventurismo per aver ipotizzato l’attrazione fatale di 160mila visitatori annui, indi ascesi alla quota tonda tonda di 200mila, meno della metà di quanti hanno varcato l’ingresso del museo al suo primo compleanno.
Sebbene “impossibile” sia l’aggettivo più pronunciato dai decisori tricolori, cronicamente afflitti da un doloroso torcicollo da diniego (no, no, no), chi scrive non è stupito da simili numeri. Di là dal fascino emanato dalla qualità architettonica della sede e dalla fama del suo progettista, esiste comunque una diffusa e comprensibilissima voglia di conoscere ed esplorare spazi museali innovativi.
Il desiderio è acuito dalla loro rarità, poiché negli ultimi trent’anni in Italia sono stati costruiti ex novo pochissimi musei (maglia nera Ue): tanti restauri di pregio, recuperi di manufatti industriali e rifunzionalizzazioni di edifici storici, ma scarsissime, travagliate e sanguinose nuove edificazioni, dacché «tanto non ne abbiamo bisogno».
Eppure nei musei più intelligenti oggi la forma è più che mai funzione: l’epocale mutazione delle missioni, delle funzioni e dei pubblici museali avvenuta nelle ultime decadi ha infatti determinato il radicale ripensamento delle soluzioni architettoniche, delle dotazioni impiantistiche, dei layout distributivi e dei principi espositivi, per sposare nuovi approcci museologici e rispettare standard museografici che esigono spazi, zonizzazioni e servizi concepiti ad hoc. I contenuti e le loro modalità di rappresentazione e narrazione sono più rilevanti dei contenitori, soprattutto quando, come nel caso trentino, vengono a sanare ferite annose, inferte dalla condizione di subordinazione in cui sono state colpevolmente confinate la cultura e la museologia scientifica italiane.
Le scienze sono importanti quanto le arti e meritano spazi e attenzioni di pari dignità e valore; il patrimonio culturale non è costituito solo da reperti archeologici e opere d’arte, ma anche da collezioni, competenze e conoscenze tecnico-scientifiche che il mondo ci invidia, nell’indifferenza generale.
Il successo del Muse non può essere pigramente ascritto al solo magnetismo della StarArchitecture, perché è figlio delle scelte consapevoli di migliaia di famiglie e persone che nel 70% dei casi non risiedono in provincia di Trento e hanno speso cifre rilevanti per visitare un museo il cui compito è: «interpretare la natura con gli occhi, gli strumenti e le domande della ricerca scientifica, invitando alla curiosità scientifica e al piacere della conoscenza per dare valore alla scienza, all’innovazione, alla sostenibilità».
Questa cospicua affluenza, grazie a un’intelligente politica di pricing (l’ingresso intero costa 9 euro, il ridotto 7, una famiglia di due genitori con bambini di max 14 anni ne paga 18, un genitore con bambini di max 14 anni ne sborsa 9), ha determinato il raggiungimento di un altro obiettivo strategico: le entrate proprie del Muse, su un budget di 11 milioni annui, superano il 40% del totale, una percentuale che in Italia viene colta da meno di 10 dei 6.350 musei esistenti.
Oggi anche per i musei l’imprenditorialità è una condizione necessaria ma non sufficiente per sopravvivere, in una Nazione con un debito pubblico di 2.200 miliardi di euro e non a caso il Muse ha calcolato l’impatto economico codeterminato dal finanziamento che riceve annualmente dalla Provincia, pari a 6,5 milioni di euro.
Secondo stime prudenziali, dall’apertura ha generato un impatto economico nel territorio provinciale di oltre 50 milioni di euro: 10,8 di impatto diretto (acquisti e stipendi netti); 7,9 di impatto fiscale (contributi Irpef, Irap, Ires e Iva versati da dipendenti, collaboratori, fornitori e aziende concessionarie); 32,15 di impatto sul sistema economico provinciale (provocato dagli acquisti di beni e servizi dei visitatori venuti a Trento da fuori provincia per visitare il museo).
In base a questi calcoli, che non considerano gli effetti indiretti e indotti e sottostimano il valore totale (secondo lo scrivente più vicino a 80 che a 50 milioni), il finanziamento provinciale non è un sussidio, ma un investimento il cui ritorno, grazie alla permanenza in loco dei gettiti fiscali, è più che positivo, dal momento che il valore del contributo pubblico è inferiore a quello del gettito fiscale rientrante nelle casse provinciali.
Cifre e metodi su cui vale la pena di riflettere a fondo, invece di lamentarsi.

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