Il vincitore delle elezioni regionali in Calabria e in Emilia-Romagna è il non voto. Così hanno sostenuto molti osservatori e attori politici. In realtà, chi non vota non vince mai. In modo più o meno consapevole e volontario, sostiene e legittima le scelte di chi vota. Sicuramente, però, l’astensione è un segnale di distacco. Un indice di disagio della democrazia rappresentativa. Ma occorre interpretarlo correttamente.
L’astensione alle elezioni regionali è sempre stata più elevata che alle politiche. Anche se mai come questa volta. Soprattutto in Emilia-Romagna, dove storicamente si vota per “appartenenza” politica e sociale. Se molti elettori hanno scelto di non votare, però, è perché non ne hanno sentito la necessità. Non dico il dovere, che ormai è categoria che non si addice al voto. Chi non ha votato (quasi due elettori su tre) l’ha fatto per diverse ragioni. Indifferenza, disinteresse, rifiuto. Molto meno, a mio avviso, contro il PdR. Il Partito di Renzi. D’altra parte, anche alle Europee gli elettori del Pd hanno votato per Renzi “nonostante tutto”.
In questo caso, alle Regionali, cioè, la posta in palio era diversa. Il governo della Regione — “rossa” per definizione. Dell’Emilia-Romagna. E se molti, troppi, non hanno votato è, anzitutto e soprattutto, per sfiducia, disincanto, verso la classe politica e dirigente non “nazionale”, ma “regionale”. Verso gli uomini di governo e di partito che, in Emilia-Romgna, coincidono largamente. Perché sono passati i tempi del “buon governo locale”. La Ditta, ormai, non garantisce più formazione e selezione della classe dirigente, come una volta. Anche perché non è più quella di prima. Il Partito, come organizzazione radicata nella società e nel territorio, non c’è più. Si è centralizzato, burocratizzato, personalizzato. Mediatizzato. Non solo il Pd post-comunista, ovviamente. È il percorso seguito da “tutti” i partiti. Ma il Pd post-comunista, nelle regioni rosse, ne ha sofferto di più. Perché coincideva, largamente, con la società. Insieme alla rete di associazioni e di istituzioni locali, che lo affiancavano, garantiva il sistema di servizi e di relazioni che accompagnavano la vita quotidiana della gente. Costituiva la tela sociale del territorio.
Oggi quel mondo non c’è più. Da tempo. Ma, in aggiunta, non c’è più neppure la classe dirigente che garantiva il funzionamento della società locale. O meglio, non ha la stessa qualità e “popolarità”. E, soprattutto, si è deteriorato il rapporto dei cittadini con il governo del territorio. Per primo, verso la Regione. Ciò non riguarda, specificamente, le “Regioni rosse” (anche se il cambiamento, in rapporto con il passato, appare più acuto). Ma le Regioni in quanto tali. La fiducia nei loro confronti, in pochi anni, è collassata, più che declinata. Nel 2000 era espressa dal 44% dei cittadini, nel 2008 dal 39%, nel 2014 dal 28% (dati di sondaggi Demos).
Questo rapido cambiamento di umore ha più di qualche ragione, più di qualche fondamento. Basti rammentare che, dal 2000, in quasi metà delle Regioni hanno avuto luogo elezioni anticipate. Solo negli ultimi due anni: sette. Oltre a Emilia-Romagna e Calabria, anche Piemonte, Lombardia, Lazio, Molise e Basilicata. Segno e conseguenza degli episodi di corruzione, abuso, irregolarità, inefficienza che hanno interessato le Regioni, in Italia. In particolare, dopo l’avvio dell’elezione diretta dei governatori, nel 2000, e dopo l’approvazione del titolo V, sul Federalismo, nel 2001, che hanno aumentato risorse e poteri delle Regioni.
Per restare agli ultimi mesi, è sufficiente rammentare gli scandali che hanno investito il Veneto e la Lombardia, per le vicende del Mose e dell’Expo. Ma, soprattutto, sono molti, troppi i casi di sperpero e di uso improprio — e indecoroso — dei soldi pubblici — dei cittadini — da parte degli amministratori regionali. A fini personali. Difficile non provare indignazione e disgusto. Difficile tornare a votare — come nulla fosse — per un’istituzione rappresentativa che non si ritiene più rappresentativa. Se non degli interessi personali dei (pochi) eletti. Così, al distacco nei confronti dei partiti e dello Stato, del Parlamento e dei leader politici, si è sommata, in misura crescente, la sfiducia nei confronti della Regione. Che è perfino più lontana e indefinita, agli occhi dei cittadini. E per questo più inaccettabile. L’indifferenza si è cumulata all’indignazione. E, alla fine, solo un terzo degli elettori, in Emilia-Romagna, si è mostrato disponibile a spendere il tempo necessario a recarsi alle urne. A votare.
Difficile, per questo, non pensare alla crisi, se non alla fine, delle attese riposte nel progetto federalista. L’illusione federalista, potremmo dire. Che ha mobilitato molte energie, molte iniziative, molti soggetti, molte persone. D’altronde, negli anni Novanta, due “partigiani” del federalismo, come Giorgio Lago e Francesco Jori, notavano, con un po’ d’ironia, che l’Italia era divenuta «il Paese con il più alto tasso di federalisti per km quadrato». Io stesso, d’altronde, ci ho creduto. Convinto che il trasferimento di poteri e di competenze dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, avrebbe allargato e qualificato la nostra democrazia. Così non è avvenuto.
Le Regioni — o, almeno, “queste” Regioni — hanno moltiplicato i centralismi. Non hanno ridotto il peso dello Stato. L’hanno accentuato ulteriormente. Riproducendone i vizi e le inefficienze. Così, oggi, diventa difficile discutere dell’astensione alle elezioni regionali senza ricondurla alla sua origine istituzionale e territoriale: la Regione. D’altronde, il governatore della Campania, Caldoro, ha proposto di sostituirle con macroaree. E perfino la Lega di Salvini, dopo trent’anni di identità nordista, sta diventando “Ligue National”. E, per questo, ha sfondato oltre il Po. La buona partecipazione, ieri, alle primarie del centrosinistra, in Puglia (ma non si può dire lo stesso per il Veneto), non basta a fugare l’idea — inquietante — che, in Italia, sia finita un’epoca della politica e delle istituzioni. Fondata sulla “centralità della periferia” e del Territorio. E ciò proietta un’ombra, che dis-orienta. Perché, di fronte alla “fine del territorio”, fonte di rappresentanza e riferimento dell’identità: com’è possibile non sentirsi s-paesati?