In America stanno aumentando in maniera significativa le donazioni per la ricerca. Ma deve passare l’idea che bisogna favorire quella di base. Da lì arriveranno le innovazioni
A metà marzo dell’anno in corso, «The New York Times» pubblicava un lungo articolo che nel titolo si chiedeva se «miliardari (billionaires) con grandi idee» stessero in realtà «privatizzando la scienza americana». L’inchiesta andava letta insieme all’editoriale di «Nature», uscito negli stessi giorni, dove si lanciava l’allarme per il fatto che quest’anno non aumenteranno i finanziamenti alla ricerca e all’innovazione negli Stati Uniti. Non solo, ma al netto dell’inflazione e dell’aumento dei costi, la decisione significa una riduzione dal 15 al 20% rispetto al budget del 2010. Sempre «Nature» di gennaio aveva dedicato uno speciale alla scienza “sponsorizzata”, in cui fornivano consigli pratici su come «corteggiare un filantropo». I nomi dei filantropi i cui investimenti e progetti stanno facendo crescere un sistema della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica quasi parallelo rispetto a quelli pubblico e industriale, sono per esempio quelli di Bill e Melinda Gates, la cui fondazione è la più generosa (con 10 miliardi di dollari investiti), o dell’altro fondatore di Microsoft, Paul Allen, il cui Allen Brain Institute di Seattle guida, insieme ad altri enti e filantropi, il progetto pubblico lanciato da Obama sul cervello («The Brain Initiative»), e i cui ricercatori pubblicano sulle maggiori riviste del settore e che mette a disposizione di tutta la comunità neuroscientifica una serie di “atlanti” del cervello tra cui la recente «geografia genetica del cervello» (casestudies.brain-map.org/ggb ). E poi Bloomberg, Koch, Kavli, Ellison, Schmith eccetera.
Con questi modelli a disposizione, le donazioni filantropiche alla ricerca e alle università in Nord America negli ultimi quindici anni sono cresciute molto più dei finanziamenti federali e statali (anche se rimangono circa il 5% in valore assoluto), quindi le classi dirigenti e i politici cercano di capire come coniugare le strategie dei miliardari con quelle degli enti che esprimono politiche influenzate da dinamiche democratiche. Si prevede che nell’arco dei prossimi tre decenni si avrà un incremento quasi esponenziale delle donazioni filantropiche, e già ora le più prestigiose università americane dipendono per il 30% del loro budget destinato alla ricerca dalle donazioni: fra trent’anni la percentuale potrebbe diventare anche due o tre volte tanto. L’economia della ricerca e dell’innovazione forse sta andando incontro a cambiamenti importanti.
L’idea che i finanziamenti privati implichino necessariamente – questa la principale preoccupazione espressa su «The New York Times» – un vantaggio per la ricerca cosiddetta traslazionale, cioè che le donazioni di privati non vadano agli studi di base per far avanzare la conoscenza, non è necessariamente vera. È un luogo comune politico, cioè demagogico e populista, che sia un bene mettere soldi in progetti dedicati a curare malattie o inventare nuovi dispositivi tecnologici. Ma chi sa come funziona la scienza è consapevole che le innovazioni sono conseguenti a un buon livello di investimenti nella ricerca di base. Ebbene non ci sono prove storiche a favore di un pregiudizio esclusivo contro la ricerca fondamentale e di una preferenza assoluta per la cosiddetta ricerca applicata nel mondo della filantropia. Ci sono stati e ci sono numerosi esempi di filantropi illuminati che hanno puntato sulla ricerca di base. La fondazione Giovanni Armenise-Harvard è un esempio di filantropia, dove il donatore riconosce che gli avanzamenti in campo biomedico dipendono direttamente dai progressi della conoscenza fondamentale e quindi si ripromette di finanziare in modo significativo, selettivo e continuativo la ricerca di base: una ricerca che è a elevato rischio di insuccesso, ma che è essenziale per migliorare la comprensione del funzionamento fondamentale delle cose, senza la quale la scienza non avanza e quindi l’innovazione per sfruttare le domande ai fini delle applicazioni a vantaggio del benessere umano. La scelta del conte Giovanni Auletta Armenise, primo industriale italiano a produrre la penicillina nel dopoguerra, sfidando economicamente il monopolio pubblico, di privilegiare la ricerca di base, fu il risultato di una ragionevole meditazione che partiva dalla constatazione che nessun progetto traslazionale può far avanzare in modo decisivo la medicina del cancro o della malattie neurodegenerative.
Negli ultimi anni, per altro, gli stessi finanziamenti pubblici, che dovrebbero coprire proprio la ricerca di base, ritenuta non di interesse per industriali e filantropi, privilegiano i progetti che hanno lo scopo di curare malattie o trasferire innovazioni ai settori produttivi. È quindi probabile che se le ricadute degli investimenti continueranno a languire perché ci sono poche novità teoriche ed esplicative nella scienza, saranno i finanziamenti privati a indirizzarsi verso la ricerca di base; cioè nella misura in cui i progetti cosiddetti traslazionali continueranno a rivelarsi tanto costosi quanto sterili quando avvicinano campi di frontiera, dove non si sa ancora abbastanza per manipolare intelligentemente i processi naturali. Un’altra questione abbastanza discussa nelle analisi economiche e politiche delle forme che assume la filantropia che finanzia la scienza, è in che misura conviene che le donazioni private vadano ad aggiungersi ai finanziamenti pubblici per incrementare la massa critica; ovvero se le donazioni debbano andare a coprire quelle aree laddove il pubblico non può o non riesce a intervenire. Anche in questo caso bisognerà probabilmente lasciare che siano le opportunità, favorite anche da vantaggi strategici offerti dalla politica e dal governo, a costruire nuove strade e strategie per gli investimenti filantropici. Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale sono state sviluppate politiche fiscali mirate a promuovere il flusso di donazioni liberali o d’investimenti direttamente in campi di utilità sociale. La filantropia e il bisogno di costruire un disegno comunitario da parte di personalità che in altri campi hanno già primeggiato potrebbe essere una strategia da perseguire anche in Italia; favorendo con agevolazioni fiscali il ruolo attivo di filantropi e fondazioni interessate a investire nella scienza.
Con questi modelli a disposizione, le donazioni filantropiche alla ricerca e alle università in Nord America negli ultimi quindici anni sono cresciute molto più dei finanziamenti federali e statali (anche se rimangono circa il 5% in valore assoluto), quindi le classi dirigenti e i politici cercano di capire come coniugare le strategie dei miliardari con quelle degli enti che esprimono politiche influenzate da dinamiche democratiche. Si prevede che nell’arco dei prossimi tre decenni si avrà un incremento quasi esponenziale delle donazioni filantropiche, e già ora le più prestigiose università americane dipendono per il 30% del loro budget destinato alla ricerca dalle donazioni: fra trent’anni la percentuale potrebbe diventare anche due o tre volte tanto. L’economia della ricerca e dell’innovazione forse sta andando incontro a cambiamenti importanti.
L’idea che i finanziamenti privati implichino necessariamente – questa la principale preoccupazione espressa su «The New York Times» – un vantaggio per la ricerca cosiddetta traslazionale, cioè che le donazioni di privati non vadano agli studi di base per far avanzare la conoscenza, non è necessariamente vera. È un luogo comune politico, cioè demagogico e populista, che sia un bene mettere soldi in progetti dedicati a curare malattie o inventare nuovi dispositivi tecnologici. Ma chi sa come funziona la scienza è consapevole che le innovazioni sono conseguenti a un buon livello di investimenti nella ricerca di base. Ebbene non ci sono prove storiche a favore di un pregiudizio esclusivo contro la ricerca fondamentale e di una preferenza assoluta per la cosiddetta ricerca applicata nel mondo della filantropia. Ci sono stati e ci sono numerosi esempi di filantropi illuminati che hanno puntato sulla ricerca di base. La fondazione Giovanni Armenise-Harvard è un esempio di filantropia, dove il donatore riconosce che gli avanzamenti in campo biomedico dipendono direttamente dai progressi della conoscenza fondamentale e quindi si ripromette di finanziare in modo significativo, selettivo e continuativo la ricerca di base: una ricerca che è a elevato rischio di insuccesso, ma che è essenziale per migliorare la comprensione del funzionamento fondamentale delle cose, senza la quale la scienza non avanza e quindi l’innovazione per sfruttare le domande ai fini delle applicazioni a vantaggio del benessere umano. La scelta del conte Giovanni Auletta Armenise, primo industriale italiano a produrre la penicillina nel dopoguerra, sfidando economicamente il monopolio pubblico, di privilegiare la ricerca di base, fu il risultato di una ragionevole meditazione che partiva dalla constatazione che nessun progetto traslazionale può far avanzare in modo decisivo la medicina del cancro o della malattie neurodegenerative.
Negli ultimi anni, per altro, gli stessi finanziamenti pubblici, che dovrebbero coprire proprio la ricerca di base, ritenuta non di interesse per industriali e filantropi, privilegiano i progetti che hanno lo scopo di curare malattie o trasferire innovazioni ai settori produttivi. È quindi probabile che se le ricadute degli investimenti continueranno a languire perché ci sono poche novità teoriche ed esplicative nella scienza, saranno i finanziamenti privati a indirizzarsi verso la ricerca di base; cioè nella misura in cui i progetti cosiddetti traslazionali continueranno a rivelarsi tanto costosi quanto sterili quando avvicinano campi di frontiera, dove non si sa ancora abbastanza per manipolare intelligentemente i processi naturali. Un’altra questione abbastanza discussa nelle analisi economiche e politiche delle forme che assume la filantropia che finanzia la scienza, è in che misura conviene che le donazioni private vadano ad aggiungersi ai finanziamenti pubblici per incrementare la massa critica; ovvero se le donazioni debbano andare a coprire quelle aree laddove il pubblico non può o non riesce a intervenire. Anche in questo caso bisognerà probabilmente lasciare che siano le opportunità, favorite anche da vantaggi strategici offerti dalla politica e dal governo, a costruire nuove strade e strategie per gli investimenti filantropici. Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale sono state sviluppate politiche fiscali mirate a promuovere il flusso di donazioni liberali o d’investimenti direttamente in campi di utilità sociale. La filantropia e il bisogno di costruire un disegno comunitario da parte di personalità che in altri campi hanno già primeggiato potrebbe essere una strategia da perseguire anche in Italia; favorendo con agevolazioni fiscali il ruolo attivo di filantropi e fondazioni interessate a investire nella scienza.