Che una buona notizia faccia notizia potrebbe già essere, di per sé, una cattiva notizia. Notizia, in quasi tutte le redazioni del mondo, è qualcosa di notevole perché inatteso, sorprendente o, per enfatizzare un po’, clamoroso. Funziona soprattutto se suscita angoscia, rabbia e magari orrore. Ma siccome sangue, indignazione e paura hanno il difetto di provocare assuefazione, capita che il dosaggio richiesto debba aumentare. E aumenti.
Le buone notizie, si è creduto finora, perdono la gara con quelle cattive perché rispecchiano una realtà banale: non vendono, non generano traffico online, non scatenano dibattiti, non scaldano Facebook e Twitter. Ma se si scopre che, senza voler molestare De Amicis, scaldano i cuori e addolciscono l’umore quotidiano, ecco che una dose diventa necessaria, come un piccolo spot rinfrescante, durante il film dell’attualità che inizia e finisce con un prevedibile «mal»: malcostume, malgoverno, malfunzionamento, malasanità, malavita, maleducazione, malcontento. Quando proprio non è colpa di nessuno: maltempo.
«Buone notizie», ovvero «Storie di un’Italia controcorrente nelle pagine del Corriere della Sera », il volume curato dal vicedirettore Giangiacomo Schiavi, ne riunisce 79, pubblicate sul giornale e sull’omonimo blog del Corriere.it , del cui eterogeneo equipaggio fanno parte scrittori come Andrea Camilleri ed Erri de Luca, sacerdoti battaglieri, come don Gino Rigoldi e don Antonio Mazzi, attori come Maria Grazia Cucinotta e Giobbe Covatta, e molti giornalisti. Contribuiscono tutti, regolarmente, a rifornire quell’armadietto di pronto soccorso dal quale attingere l’antidoto alla ordinaria malvagità.
«Controcorrente» non è una definizione casuale; e lo si capisce fin dalle prime pagine dedicate «agli eroi della normalità», perché sono proprio le parole del maestro dei bastian contrari del giornalismo italiano, Indro Montanelli, a spiegare l’impari battaglia per la notorietà tra fatti edificanti e ladrocini, pace e guerra, galantuomini e malfattori.
«Prendiamo un argomento qualunque: la scuola — proponeva Montanelli —. Un professore non dovrebbe costituire una notizia, se si presenta regolarmente in classe; se fugge a Las Vegas con la bidella, lo diventa. Se le pagine milanesi del Corriere talvolta ignorano la scuola, vuol dire che quel giorno il provveditorato non si è fatto venire strane idee, i professori hanno compiuto il proprio dovere, le bidelle pure e sui voli per las Vegas ci sono ancora posti disponibili».
Aveva ragione quando si dichiarava pronto ad ammettere che «in Italia i bravi ragazzi sono più numerosi dei delinquenti, ma i quotidiani non possono pubblicare ogni giorno nomi e cognomi di quelli che non hanno rubato in casa, non hanno picchiato i genitori, non hanno ingerito droga e non si sono rotti la testa in automobile». E aveva ragione a non rallegrarsi di fronte al sensazionalismo della normalità: «Vuol dire che essere normali, in questo Paese, è diventato eroico».
Ma che ci fosse un’Italia invisibile e tenace sulla sua retta via, meritevole di più attenzione, l’aveva capito un altro grande direttore, Candido Cannavò, dimostrando un fiuto eccezionale quando si trattava di scovare una ballerina, pittrice e scrittrice senza braccia, Simona Atzori («e la chiamano disabile!»), o «pretacci» capaci di strappare adepti alla ‘ndrangheta e Maddalene al marciapiede. C’è una morale, sì, ma non sono favole.
Non è una favola, la storia di Marco Gasperetti sul clandestino cinese Yan che, per primo, ha osato rompere il muro di omertà attorno alla Chinatown degli sfruttatori di una fabbrica fantasma, a Prato. Una pressa a caldo per etichette gli ha spappolato una mano, ma sono state le minacce dei suoi negrieri, se avesse parlato, a spingerlo ad andare alla polizia. Normale? Mica tanto, se il compenso alla fine è una vita sotto scorta.
Anche laurearsi a 28 anni in Scienze della formazione e del servizio sociale non ha niente di epico, a meno di essere autistico, come nel caso di Andrea Paolucci. Non è una favola, ma chissà che non diventi un esempio la sua tesi da 110 e lode, intitolata «La mia vita nel Pozzo». Soprattutto per come è stata scritta. E discussa: racconta Nico Falco che la seduta di laurea si è svolta tramite la proiezione di tabelle e grafici e Andrea ha risposto alle domande attraverso la messaggistica istantanea. Difficile immaginarne un uso migliore.
Perfino l’economia, di questi tempi, fornisce buone notizie. A Luca Mattiucci, quella di una storica casa editrice risorta a Scampia grazie all’ex scugnizzo Rosario Esposito. A Davide Illarietti, quella di Enzo Muscio che ha impegnato la casa e tutti i suoi risparmi per riaprire l’azienda che lo aveva licenziato prima di fallire: «Ora è lui il titolare e ha ridato il lavoro a una ventina di colleghi». Questa, forse, Montanelli l’avrebbe messa in prima pagina.
«Buone notizie», ovvero «Storie di un’Italia controcorrente nelle pagine del Corriere della Sera », il volume curato dal vicedirettore Giangiacomo Schiavi, ne riunisce 79, pubblicate sul giornale e sull’omonimo blog del Corriere.it , del cui eterogeneo equipaggio fanno parte scrittori come Andrea Camilleri ed Erri de Luca, sacerdoti battaglieri, come don Gino Rigoldi e don Antonio Mazzi, attori come Maria Grazia Cucinotta e Giobbe Covatta, e molti giornalisti. Contribuiscono tutti, regolarmente, a rifornire quell’armadietto di pronto soccorso dal quale attingere l’antidoto alla ordinaria malvagità.
«Controcorrente» non è una definizione casuale; e lo si capisce fin dalle prime pagine dedicate «agli eroi della normalità», perché sono proprio le parole del maestro dei bastian contrari del giornalismo italiano, Indro Montanelli, a spiegare l’impari battaglia per la notorietà tra fatti edificanti e ladrocini, pace e guerra, galantuomini e malfattori.
«Prendiamo un argomento qualunque: la scuola — proponeva Montanelli —. Un professore non dovrebbe costituire una notizia, se si presenta regolarmente in classe; se fugge a Las Vegas con la bidella, lo diventa. Se le pagine milanesi del Corriere talvolta ignorano la scuola, vuol dire che quel giorno il provveditorato non si è fatto venire strane idee, i professori hanno compiuto il proprio dovere, le bidelle pure e sui voli per las Vegas ci sono ancora posti disponibili».
Aveva ragione quando si dichiarava pronto ad ammettere che «in Italia i bravi ragazzi sono più numerosi dei delinquenti, ma i quotidiani non possono pubblicare ogni giorno nomi e cognomi di quelli che non hanno rubato in casa, non hanno picchiato i genitori, non hanno ingerito droga e non si sono rotti la testa in automobile». E aveva ragione a non rallegrarsi di fronte al sensazionalismo della normalità: «Vuol dire che essere normali, in questo Paese, è diventato eroico».
Ma che ci fosse un’Italia invisibile e tenace sulla sua retta via, meritevole di più attenzione, l’aveva capito un altro grande direttore, Candido Cannavò, dimostrando un fiuto eccezionale quando si trattava di scovare una ballerina, pittrice e scrittrice senza braccia, Simona Atzori («e la chiamano disabile!»), o «pretacci» capaci di strappare adepti alla ‘ndrangheta e Maddalene al marciapiede. C’è una morale, sì, ma non sono favole.
Non è una favola, la storia di Marco Gasperetti sul clandestino cinese Yan che, per primo, ha osato rompere il muro di omertà attorno alla Chinatown degli sfruttatori di una fabbrica fantasma, a Prato. Una pressa a caldo per etichette gli ha spappolato una mano, ma sono state le minacce dei suoi negrieri, se avesse parlato, a spingerlo ad andare alla polizia. Normale? Mica tanto, se il compenso alla fine è una vita sotto scorta.
Anche laurearsi a 28 anni in Scienze della formazione e del servizio sociale non ha niente di epico, a meno di essere autistico, come nel caso di Andrea Paolucci. Non è una favola, ma chissà che non diventi un esempio la sua tesi da 110 e lode, intitolata «La mia vita nel Pozzo». Soprattutto per come è stata scritta. E discussa: racconta Nico Falco che la seduta di laurea si è svolta tramite la proiezione di tabelle e grafici e Andrea ha risposto alle domande attraverso la messaggistica istantanea. Difficile immaginarne un uso migliore.
Perfino l’economia, di questi tempi, fornisce buone notizie. A Luca Mattiucci, quella di una storica casa editrice risorta a Scampia grazie all’ex scugnizzo Rosario Esposito. A Davide Illarietti, quella di Enzo Muscio che ha impegnato la casa e tutti i suoi risparmi per riaprire l’azienda che lo aveva licenziato prima di fallire: «Ora è lui il titolare e ha ridato il lavoro a una ventina di colleghi». Questa, forse, Montanelli l’avrebbe messa in prima pagina.