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"Lezioni per professori", di Roberto Casati – Il Sole 24 Ore 02.11.14

Perché insegniamo? E perché insegniamo nel modo in cui insegniamo? Che cosa ci porta davanti a una classe, che cosa ci sveglia la notte alla ricerca delle parole giuste, del modo più coinvolgente di presentare un concetto difficile; che cosa fa sì che siamo insoddisfatti del modo in cui abbiamo valutato uno studente, o contenti di vederlo prendere il volo nella vita? Ci sono certo molte narrazioni sull’insegnamento, da Platone a Don Milani, ciascuna delle quali mette in luce un qualche aspetto di questa pratica lunga, costosa, e in fin dei conti abbastanza innaturale per come viene praticata; tanto innaturale da farne un vero e proprio marchio di umanità. “Abbastanza” innaturale, e comunque meno naturale dell’imparare, che è un vero e proprio automatismo di un cervello fatto per guidarci in un ambiente complesso e aleatorio. Forse siamo anche in parte insegnanti di nascita; e tuttavia la complessità del sistema di istruzione odierno è un artefatto culturale recente, segue la complessità dell’evoluzione sociale, e richiede un’organizzazione della pratica di insegnamento, giorno per giorno, anno dopo anno. Che cosa sappiamo di questa pratica, per come è organizzata oggi? Quali sono le sue motivazioni, chi sono le persone che insegnano? Che cosa possiamo fare per migliorarla?
Franco Lorenzoni risponde – direttamente e indirettamente – con un libro molto intenso, che riprende ed espande una sua precedente pubblicazione di cui ebbi modo di parlare un paio di anni fa. Non affronta direttamente la domanda con cui ho aperto questo articolo, ma mostra quale possa essere la risposta. Lorenzoni è insegnante della scuola primaria a Giove, un paese della provincia di Terni, dove ha lavorato per tutta la sua carriera; molto attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa, e molto impegnato sulle questioni di riforma della scuola, della formazione degli insegnanti e della valutazione (di cui scrive su queste colonne – ndr). Il libro racconta in modo fluido, appassionato e appassionante, l’ultimo anno di una classe che il maestro ha seguito dalla prima elementare. Attività costruite intorno al tema delle radici mediterranee, filosofia, matematica, astronomia; letture di tragedie greche, di miti lontani; la misura della Terra; un’opera d’arte lungamente approfondita – quella della Scuola di Atene di Raffaello – che permette di raccogliere le idee e di lanciare nuovi progetti; episodi che turbano la vita di Giove, una morte, l’attività della classe fa una pausa e affronta l’immensa difficoltà del tema; l’integrazione di una comunità di immigrati, e non c’è verso, solo la scuola può mostrare la strada, costruire sull’immensa ricchezza costituita dal fatto che la seconda generazione è madrelingua italiana, ovvero italiana, portare un senso di appartenenza che coinvolga le famiglie; il teatro che permette di rielaborare e mettere in prospettiva non soltanto le conoscenze ma anche le personalità, consolida le prime, fa sbocciare le seconde.
La risposta alla domanda «perché insegniamo» non è però – e qui avanzo un’ipotesi, dovrei forse procedere con più cautela – non è soltanto nella definizione di un percorso, per quanto ricco, per quanto misteriosamente coinvolgente; non è solo nella forza di una passione, per quanto ciò traspaia a ogni pagina, quasi ad ogni riga. Il libro di Lorenzoni è un canto corale, la sua voce si perde tra quelle dei bambini, si fa da parte, e a un certo punto ci ritroviamo a pensare qualcosa di simile alla risposta di Mallory a chi gli chiedeva perché mai scalare l’Everest: Because it’s there, perché esiste, perché eccolo. Siamo da qualche decennio imprigionati nella cultura del figlio-oggetto, un bambino senza voce che cerca come può di barcamenarsi tra le richieste contraddittorie di un ambiguo copione genitoriale: il bimbo creativo e votato a un sicuro successo, da addobbare come un albero di Natale con capacità complesse perché sia poi competitivo sul feroce mercato mondiale del lavoro, quindi proiettato in una dimensione lontana dall’infanzia; poi però lasciato per ore ogni giorno davanti a schermi che lo incatenano a una realtà mediata, indifferente, e ritardano ogni confronto. Non è tanto giocare con la creta o guardare le stelle o imparare le canzoni rumene o tenere un epistolario con Eratostene, non è solo questo che colpisce nel libro, non è un’immagine di pedagogia fuori dagli schemi (che pure va bene e fa bene). È piuttosto l’idea che i bambini e le bambine abbiano una voce, possano esplorare piste che sfuggono agli adulti, trovino normale sbagliare e avere una seconda possibilità, e poi una terza, e poi un’altra ancora. Insegnare è allora tenere aperte queste possibilità, dare loro un volto e un nome, credere e dimostrare di credere che l’infanzia sia un momento sospeso e insostituibile, e lottare perché continui ad esserlo, guardare con sospetto le scorciatoie: “allungare la strada”.