«E dunque, o vecchio, non dire/che troppi sono i tuoi anni;/oggi,degli anni passati,/nessuno, più, vecchio, è con te». Così si dice in una splendida lirica dell’ Antologia palatina , la raccolta poetica ellenistica grande e concisa nel parlare di amore e di morte, che tanti secoli più tardi avrebbe ispirato un’altra celebre opera, Spoon River dell’americano Edgar Lee Masters.
Come spesso accade alla poesia ed è suo diritto che accada, quei versi di Pallada dicono una cosa vera e insieme non vera. Ognuno si porta tutto dietro, consapevole o no; il suo vissuto, la sua salute e la sua malattia, il suo coraggio e la sua paura, le sue fedi e quella buia palude interiore in cui sembra che ogni certezza e ogni speranza si dissolvano. Ma è anche vero che in certi istanti la vita sembra raccogliersi in un unico punto ignaro di tutto il resto e l’individuo sente di esistere nell’epifania di quell’istante, sente che esiste solo quell’istante. Può essere l’attimo della morte, l’attimo in cui Saulo cade da cavallo per diventare San Paolo e forse pure l’attimo in cui ci si avvicina al letto di una persona amata o anche solo desiderata.
I vecchi diventano sempre più — positivamente e negativamente — protagonisti del nostro mondo; oggetto di solidarietà o di fastidio, comunque di preoccupazione. Il prolungarsi della vita e la parsimonia delle nascite popolano sempre più la nostra società di vecchi, guardati con solidarietà — perché più deboli e indifesi in un mondo sempre più spietato — e insieme con impaziente ostilità per il loro peso che grava sulle spalle degli altri, per il costo del loro mantenimento che tarpa le generazioni più giovani, sempre più in difficoltà nella ricerca di un lavoro.
All’immagine del vecchio ricco di un’esperienza che è fondamentale trasmettere e ricevere si affianca quella del parassita che succhia sangue ed energie altrui. Il crescente numero dei vecchi, ampio bacino di elettori, li fa corteggiare dalla politica, ma un brutale culto della giovinezza induce a considerarli oggetti usati e inutili da rottamare. Paradossalmente, a una longevità sempre più lunga e capace di prestazioni che rivelano una pienezza di vita — Oliveira sta girando un film a 106 anni, i 101 di Boris Pahor sono in piena efficienza e in piena attività intellettuale — si contrappone una febbre di gioventù, un’idolatria della brevità e dell’attualità ridotte a dimensioni sempre più brevi, a un film all’acceleratore come quelli di Ridolini, e consegnate al cassonetto del vecchiume. Un ventenne mi ha detto alcuni mesi fa che non si sognerebbe nemmeno di andare a vedere un film girato prima della fine degli anni Ottanta, così come io non mi sognerei di usare una di quelle biciclette ottocentesche che avevano una ruota piccolissima e una enorme e che ho visto solo in qualche fotografia. Mi hanno detto che stanno uscendo libri quali «Come eravamo negli anni Novanta», epoca che per l’autore di questo libro è antidiluviana; temo che non lo leggerò perché quando apparirà in libreria sarà già vecchio e sorpassato. Mi propongo invece di scrivere un elzeviro su come ero io lo scorso giugno.
A questi protagonisti e/o esclusi della nostra società è dedicato un intenso, vivacissimo e documentato libro di Carlo Vergani e Giangiacomo Schiavi, Ancora troppo giovani per essere vecchi . Si tratta di un dialogo in cui il nostro Giangiacomo Schiavi pone a Carlo Vergani — grande gerontologo e geriatra che ha coperto la relativa cattedra e diretto la scuola di specializzazione, coordinando il dottorato di ricerca in Fisiopatologia dell’invecchiamento e assumendo la responsabilità dell’Unità operativa di geriatria presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano — incalzanti domande sui vari aspetti (clinici e sociali, politici e morali, economici e psicologici) e prendendo a sua volta spunto dalle sue risposte per sviluppare altri temi.
Il libro è un incisivo, sintetico panorama del pianeta della vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti, scandito da dati precisi e indagato con una finezza che unisce competenza scientifica, prospettiva politico-sociologica e profonda, asciutta partecipazione umana. Un atlante sobrio e completo. Il numero crescente dei vecchi, quelli fra loro che non vivono ma sopravvivono fragili e dimenticati facendo la spola fra ricoveri e dimissioni ospedaliere; l’aumento della speranza di vita e un’opaca disperazione; la solitudine, i costi della demenza, le domande e l’imbarazzo delle risposte, le ragioni della pietas, i segni dell’invecchiare; la capacità di riconoscere e anche amare le tracce che gli anni lasciano su un viso e la patetica aridità del lifting, il ruolo e i limiti del sesso, i drammi della memoria — che è amore, dice Vergani, ricordando come in francese e in inglese imparare a memoria si dica significativamente par coeur, by heart — la depressione e il dolore, l’insufficienza delle cure, l’assistenza. Vergani auspica una necessaria «medicina narrativa», un nuovo rapporto tra medico e pazienti non più silenziosi e imbarazzati davanti all’autorità del camice bianco, un «medico nuovo». Cita il cardinal Martini che parlava della necessità di «dare volto, voce e parola alla malattia», dimostrando un’intelligenza diversa dalla spiritosaggine di quello scrittore inglese che propone «pubs per l’eutanasia», in cui «si entra, si beve un bicchiere e si passa a miglior vita». È un libro che mostra come «una società che invecchia è senza futuro e senza passato, perché non ha rincalzi generazionali e trascura le sue radici».
«Fra le tante domande destate dal libro che vorrei porvi — chiedo loro — c’è, come dice il titolo, oltre al problema dei vecchi e dei giovani, quello di una generazione ancora abbastanza giovane che deve ritirarsi dalla vita attiva — i prepensionamenti, gli esuberi e così via — e che si trova in un disagio forse ancora più pesante, in un’età contraddittoria e indistinta, in cui sarebbe necessario ma non è possibile essere attivi e in cui l’emarginazione è forse più dura che nella vecchiaia».
Vergani — «La generazione ancora abbastanza giovane è quella che i demografi chiamano generazione X. Sono persone di età intermedia fra i baby boomers, nati negli anni Cinquanta, e i millennials, nati alla fine del secolo scorso che hanno compiuto i 18 anni nel corso del terzo millennio. In un periodo di crisi economica la perdita del lavoro, senza la possibilità di uno sbocco alternativo, toglie la fiducia nel domani: è così che subentra la rassegnazione e si diventa vecchi dentro. È una vecchiaia esogena che non ha niente a che fare con la fisiologia del soggetto, un indotto sociale sul quale si può intervenire».
Schiavi — «C’è un corto circuito provocato dalla crisi economica e dal giovanilismo tecnologico. La sintesi è una parola orribile: rottamazione. Si considerano già vecchi i cinquanta-sessantenni, pensando di ridurre i costi del lavoro. Cosi abbiamo il boom dei pensionamenti e delle malattie legate all’invecchiamento. Dovremmo rendere produttiva l’anzianità, invece di creare un apartheid. E rileggere García Márquez, quando dice che ai vecchi la morte non arriva con l’età, ma con la solitudine…».
Magris — «Certo, la letteratura di ogni secolo e di ogni Paese ha affrontato la vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti. Ad esempio negli ultimi racconti di Svevo, il vecchio — che ne è il protagonista — vive una stagione di libertà selvaggia: estromesso dalla lotta per la vita e dalla competizione, non ha più l’ansioso dovere di vincere, di sedurre, di dominare, di essere efficiente. Ha il diritto di essere debole, sconfitto e si gode questa zona di nessuno, questo spazio solo suo, il piacere di vivere senza dover essere valutato, messo in classifica, senza il dovere assillante di primeggiare. Arrigo Levi, citato nel vostro libro, parla della vecchiaia come di una nuova avventura, in cui c’è più tempo — più libertà dal lavoro, da quella esigenza di fare, di produrre, di partecipare, di intervenire, che toglie il respiro e rende schiavi. È un dramma non avere un lavoro che permetta di vivere con dignità, ma c’è una febbre ansiosa di attività, di interventi; un assillante bombardamento di cose da fare, domande cui rispondere, eventi cui partecipare, una vera maledizione che avvelena l’esistenza. Si è persa la capacità di oziare, di quel “grande ozio” che permette di vivere veramente, di cui parlava Comisso proprio sul Corriere . Se la vecchiaia offrisse una liberazione da tutto questo non sarebbe poco…».
Come spesso accade alla poesia ed è suo diritto che accada, quei versi di Pallada dicono una cosa vera e insieme non vera. Ognuno si porta tutto dietro, consapevole o no; il suo vissuto, la sua salute e la sua malattia, il suo coraggio e la sua paura, le sue fedi e quella buia palude interiore in cui sembra che ogni certezza e ogni speranza si dissolvano. Ma è anche vero che in certi istanti la vita sembra raccogliersi in un unico punto ignaro di tutto il resto e l’individuo sente di esistere nell’epifania di quell’istante, sente che esiste solo quell’istante. Può essere l’attimo della morte, l’attimo in cui Saulo cade da cavallo per diventare San Paolo e forse pure l’attimo in cui ci si avvicina al letto di una persona amata o anche solo desiderata.
I vecchi diventano sempre più — positivamente e negativamente — protagonisti del nostro mondo; oggetto di solidarietà o di fastidio, comunque di preoccupazione. Il prolungarsi della vita e la parsimonia delle nascite popolano sempre più la nostra società di vecchi, guardati con solidarietà — perché più deboli e indifesi in un mondo sempre più spietato — e insieme con impaziente ostilità per il loro peso che grava sulle spalle degli altri, per il costo del loro mantenimento che tarpa le generazioni più giovani, sempre più in difficoltà nella ricerca di un lavoro.
All’immagine del vecchio ricco di un’esperienza che è fondamentale trasmettere e ricevere si affianca quella del parassita che succhia sangue ed energie altrui. Il crescente numero dei vecchi, ampio bacino di elettori, li fa corteggiare dalla politica, ma un brutale culto della giovinezza induce a considerarli oggetti usati e inutili da rottamare. Paradossalmente, a una longevità sempre più lunga e capace di prestazioni che rivelano una pienezza di vita — Oliveira sta girando un film a 106 anni, i 101 di Boris Pahor sono in piena efficienza e in piena attività intellettuale — si contrappone una febbre di gioventù, un’idolatria della brevità e dell’attualità ridotte a dimensioni sempre più brevi, a un film all’acceleratore come quelli di Ridolini, e consegnate al cassonetto del vecchiume. Un ventenne mi ha detto alcuni mesi fa che non si sognerebbe nemmeno di andare a vedere un film girato prima della fine degli anni Ottanta, così come io non mi sognerei di usare una di quelle biciclette ottocentesche che avevano una ruota piccolissima e una enorme e che ho visto solo in qualche fotografia. Mi hanno detto che stanno uscendo libri quali «Come eravamo negli anni Novanta», epoca che per l’autore di questo libro è antidiluviana; temo che non lo leggerò perché quando apparirà in libreria sarà già vecchio e sorpassato. Mi propongo invece di scrivere un elzeviro su come ero io lo scorso giugno.
A questi protagonisti e/o esclusi della nostra società è dedicato un intenso, vivacissimo e documentato libro di Carlo Vergani e Giangiacomo Schiavi, Ancora troppo giovani per essere vecchi . Si tratta di un dialogo in cui il nostro Giangiacomo Schiavi pone a Carlo Vergani — grande gerontologo e geriatra che ha coperto la relativa cattedra e diretto la scuola di specializzazione, coordinando il dottorato di ricerca in Fisiopatologia dell’invecchiamento e assumendo la responsabilità dell’Unità operativa di geriatria presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano — incalzanti domande sui vari aspetti (clinici e sociali, politici e morali, economici e psicologici) e prendendo a sua volta spunto dalle sue risposte per sviluppare altri temi.
Il libro è un incisivo, sintetico panorama del pianeta della vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti, scandito da dati precisi e indagato con una finezza che unisce competenza scientifica, prospettiva politico-sociologica e profonda, asciutta partecipazione umana. Un atlante sobrio e completo. Il numero crescente dei vecchi, quelli fra loro che non vivono ma sopravvivono fragili e dimenticati facendo la spola fra ricoveri e dimissioni ospedaliere; l’aumento della speranza di vita e un’opaca disperazione; la solitudine, i costi della demenza, le domande e l’imbarazzo delle risposte, le ragioni della pietas, i segni dell’invecchiare; la capacità di riconoscere e anche amare le tracce che gli anni lasciano su un viso e la patetica aridità del lifting, il ruolo e i limiti del sesso, i drammi della memoria — che è amore, dice Vergani, ricordando come in francese e in inglese imparare a memoria si dica significativamente par coeur, by heart — la depressione e il dolore, l’insufficienza delle cure, l’assistenza. Vergani auspica una necessaria «medicina narrativa», un nuovo rapporto tra medico e pazienti non più silenziosi e imbarazzati davanti all’autorità del camice bianco, un «medico nuovo». Cita il cardinal Martini che parlava della necessità di «dare volto, voce e parola alla malattia», dimostrando un’intelligenza diversa dalla spiritosaggine di quello scrittore inglese che propone «pubs per l’eutanasia», in cui «si entra, si beve un bicchiere e si passa a miglior vita». È un libro che mostra come «una società che invecchia è senza futuro e senza passato, perché non ha rincalzi generazionali e trascura le sue radici».
«Fra le tante domande destate dal libro che vorrei porvi — chiedo loro — c’è, come dice il titolo, oltre al problema dei vecchi e dei giovani, quello di una generazione ancora abbastanza giovane che deve ritirarsi dalla vita attiva — i prepensionamenti, gli esuberi e così via — e che si trova in un disagio forse ancora più pesante, in un’età contraddittoria e indistinta, in cui sarebbe necessario ma non è possibile essere attivi e in cui l’emarginazione è forse più dura che nella vecchiaia».
Vergani — «La generazione ancora abbastanza giovane è quella che i demografi chiamano generazione X. Sono persone di età intermedia fra i baby boomers, nati negli anni Cinquanta, e i millennials, nati alla fine del secolo scorso che hanno compiuto i 18 anni nel corso del terzo millennio. In un periodo di crisi economica la perdita del lavoro, senza la possibilità di uno sbocco alternativo, toglie la fiducia nel domani: è così che subentra la rassegnazione e si diventa vecchi dentro. È una vecchiaia esogena che non ha niente a che fare con la fisiologia del soggetto, un indotto sociale sul quale si può intervenire».
Schiavi — «C’è un corto circuito provocato dalla crisi economica e dal giovanilismo tecnologico. La sintesi è una parola orribile: rottamazione. Si considerano già vecchi i cinquanta-sessantenni, pensando di ridurre i costi del lavoro. Cosi abbiamo il boom dei pensionamenti e delle malattie legate all’invecchiamento. Dovremmo rendere produttiva l’anzianità, invece di creare un apartheid. E rileggere García Márquez, quando dice che ai vecchi la morte non arriva con l’età, ma con la solitudine…».
Magris — «Certo, la letteratura di ogni secolo e di ogni Paese ha affrontato la vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti. Ad esempio negli ultimi racconti di Svevo, il vecchio — che ne è il protagonista — vive una stagione di libertà selvaggia: estromesso dalla lotta per la vita e dalla competizione, non ha più l’ansioso dovere di vincere, di sedurre, di dominare, di essere efficiente. Ha il diritto di essere debole, sconfitto e si gode questa zona di nessuno, questo spazio solo suo, il piacere di vivere senza dover essere valutato, messo in classifica, senza il dovere assillante di primeggiare. Arrigo Levi, citato nel vostro libro, parla della vecchiaia come di una nuova avventura, in cui c’è più tempo — più libertà dal lavoro, da quella esigenza di fare, di produrre, di partecipare, di intervenire, che toglie il respiro e rende schiavi. È un dramma non avere un lavoro che permetta di vivere con dignità, ma c’è una febbre ansiosa di attività, di interventi; un assillante bombardamento di cose da fare, domande cui rispondere, eventi cui partecipare, una vera maledizione che avvelena l’esistenza. Si è persa la capacità di oziare, di quel “grande ozio” che permette di vivere veramente, di cui parlava Comisso proprio sul Corriere . Se la vecchiaia offrisse una liberazione da tutto questo non sarebbe poco…».
1 Commento