L’attuale disordine mondiale mostra contraddizioni evidenti e crescenti. Il capitalismo autoritario risulta vincente su quello liberaldemocratico, tradito ormai dalla globalizzazione del mercato e da uno sviluppo tecnologico dirompente. Globalizzazione e tecnologia hanno via via trasformato il capitalismo di produzione in un capitalismo finanziario: un’arena nella quale la creazione di valore nei beni prodotti ha ceduto alla speculazione basata sul debito, sia privato che pubblico.
Dalla guerra fredda in poi il costituzionalismo democratico ha interrotto il suo cammino: gli Stati europei vanno perdendo identità, le loro istituzioni fondamentali si dileguano in poteri tribali alla fine traballanti, spesso nel segno di impossibili autonomie. La soluzione, infine, di una salvifica federazione europea sta svanendo negli umori di un elettorato che in larga misura la aborre, con grande rumore mediatico. È così che la troika (Ue, Bce, Fmi), imponendo una rigorosa austerità, si è eretta a governo di fatto dell’Europa, pur priva di ogni legittimazione democratica.
Non per caso è stato sufficiente che il presidente della Bce (dai poteri limitati) si sia pronunciato sulla drammatica situazione di un’economia ristagnante e in un sol giorno le borse europee sono crollate. Dal punto di vista politico, intanto, la Germania insiste nelle sue pretese egemoniche e tende a svilire ogni tentativo di governo collegiale all’interno dell’Unione europea.
Non meno critica appare, per altri versi, la situazione della democrazia americana. Qui il presidente Obama è palesemente accusato di violare la costituzione per aver scatenato la recente guerra contro l’Isis senza l’approvazione del Congresso. Altrettanto inquietanti e rovinose si erano rivelate le decisioni della Corte Suprema nel caso Citizen United del 2010 e ancor più in quello McCutcheon del 2 aprile 2014, già da me qui commentate, che avevano deciso che ogni tipo di contributo a uomini, organizzazioni, o partiti politici da parte delle grandi società non possono essere né regolati, né limitati, in quanto protetti dal primo emendamento della Costituzione americana. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha legalizzato definitivamente la corruzione politica e il governo statunitense – come ha sottolineato lo stesso ex giudice John Paul Stevens – ha mutato la sua natura: da governo dei cittadini a governo delle corporation. Il parelleo è lecito: sia in Europa, sia negli Stati Uniti il potere delle democrazie ha abdicato agli interessi del denaro e dei potentati economici.
A ciò va aggiunta la invadente globalizzazione della Nato, la più estesa organizzazione guidata dagli Stati Uniti: ormai una forza di polizia mondiale basata su uno strapotere militare, minaccioso ea dubitativamente lecito. È un potere che ha tolto ogni funzione alle Nazioni Unite – forse ormai inadeguate – e alla loro istituzionale vocazione pacifista. È così che la storia della globalizzazione della Nato, dalla Jugoslavia al Kosovo, dall’Afghanistan alle variegate guerre al terrorismo, ha alimentato devastanti operazioni belliche, brutalmente alternative ad un ordine mondiale democratico.
In concorrenza alle democrazie occidentali un blocco di capitalismo autoritario si sta costituendo fra Russia e Cina. I recenti accordi tra Vladimir Putin e Xi Jin Ping hanno sancito e celebrato precise, ben al di là di un semplice trattato economico sul gas. Si tratta in verità di un’alleanza di Stati autoritari, con una popolazione di circa un miliardo e seicento milioni di persone, nel territorio che va dai confini della Polonia al Pacifico e dal circolo artico alla frontiera afghana, compresi altri Stati come ad esempio la Corea del Nord, la Georgia, l’Armenia.
Mentre il binomio “capitalismo – democrazia” è ideologicamente degenerato in “capitalismo – mercato”, creando povertà e disuguaglianze, le élite politiche si sono via via indebolite con le loro istituzioni, dando vita alla lenta, evanescente riduzione dei poteri dello Stato, sempre più sostituiti dall’impero del mercato.
Laddove invece, nella Repubblica Popolare Cinese e nella Russia di Putin, i modelli di Stati dominanti sono ancora estremamente vitali, pur nella loro varietà, un forte interesse comune nei confronti sia della politica estera che della politica interna li unisce e li aggrega. Per la politica estera basterà ricordare il loro identico voto nel Consiglio di Sicurezza e nel sostegno a dittature sanguinarie come quella della Siria, nonché il loro comune risentimento nei confronti di un ordine mondiale imposto dagli Stati Uniti. Per la politica interna, la strategia economica appare identica nell’assicurare i benefici di un’integrazione globale ed una notevole apertura nei confronti di una modernizzazione, che avvenga nell’identico controllo ideologico sulla popolazione e nella repressione dei dissidenti.
L’economia russa e quella cinese sono aperte alle pressioni dell’economia globale, ma l’allocazione delle ricchezze è determinata non già dalle forze irrazionali e sovente oscure del mercato, ma dagli apparati centrali di uno Stato nelle mani di un’organizzazione politica centrale, di oligarchie di comando, dirette da un Presidente e dai suoi fedeli subordinati. Incredibilmente eguale e scambievole è l’esaltazione del Capo, tant’è che uno dei maggiori best seller nelle librerie cinesi è la biografia di: “Putin il grande”.
La libertà del mercato capitalista consente a tali élite di mantenere il potere, poiché la libertà privata a livello individuale, di comprare e vendere, di ereditare e muoversi ed arricchirsi, da un lato facilita la crescita economica che il completo controllo dello Stato non potrebbe garantire, ma dall’altro diminuisce la domanda delle libertà pubbliche e politiche da parte dei cittadini.
Il nuovo capitalismo autoritario porta con sé un fascino che sta altresì seducendo le élite politiche di vari Paesi africani, sudamericani ed asiatici, presentando l’alternativa a uno sviluppo economico moderno, nella crescita senza democrazia e nel progresso senza libertà politica. È così che il fascino dell’autoritarismo scivola spesso in una sorta di apprezzamento o passione per i tiranni, magari nella veste di esperti, costantemente comunque indifferenti al destino dei diritti umani.
Un evento completamente nuovo si sta peraltro verificando ad Hong Kong, dove una protesta pacifista, dominata dagli studenti che si identificano nell’organizzazione “Occupy Central”, sta chiedendo le dimissioni del reggente della città, dal 1997 sotto la sovranità cinese come speciale regione amministrativa, ma con un proprio riconosciuto sistema legale. I dimostranti, protagonisti di quella che viene chiamata “Umbrella revolution”, chiedono elezioni popolari per la nomina del reggente, attualmente scelto da un Comitato di membri legati a Pechino e una maggior partecipazione democratica nella vita politica e sociale.
Il comportamento del governo cinese è ancora estremamente incerto.
La conclusione, peraltro, sembra a questo punto quantomeno paradossale. Negli Stati autoritari serpeggia crescente una nuova spinta verso i diritti umani di libertà politica, mentre negli Stati liberali la democrazia è addirittura considerata un fenomeno sorpassato, tanto da non essere, come ha correttamente rilevato nel suo recente libro William Easterly, (“The Tyranny of Experts: Economics, Dictators, and the Forgotten Rights of the Poor”) neppure menzionata dallo statuto della Banca mondiale tra i suoi peraltro nobili scopi. Se la concorrenza fra capitalismo autoritario e quello liberale dovesse improvvisamente svolgersi sul terreno della conquista e difesa dei diritti umani, piuttosto che sul predominio mercantile e militare, l’attuale globalizzazione senza regole troverebbe finalmente un suo destino di civiltà.
Non per caso è stato sufficiente che il presidente della Bce (dai poteri limitati) si sia pronunciato sulla drammatica situazione di un’economia ristagnante e in un sol giorno le borse europee sono crollate. Dal punto di vista politico, intanto, la Germania insiste nelle sue pretese egemoniche e tende a svilire ogni tentativo di governo collegiale all’interno dell’Unione europea.
Non meno critica appare, per altri versi, la situazione della democrazia americana. Qui il presidente Obama è palesemente accusato di violare la costituzione per aver scatenato la recente guerra contro l’Isis senza l’approvazione del Congresso. Altrettanto inquietanti e rovinose si erano rivelate le decisioni della Corte Suprema nel caso Citizen United del 2010 e ancor più in quello McCutcheon del 2 aprile 2014, già da me qui commentate, che avevano deciso che ogni tipo di contributo a uomini, organizzazioni, o partiti politici da parte delle grandi società non possono essere né regolati, né limitati, in quanto protetti dal primo emendamento della Costituzione americana. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha legalizzato definitivamente la corruzione politica e il governo statunitense – come ha sottolineato lo stesso ex giudice John Paul Stevens – ha mutato la sua natura: da governo dei cittadini a governo delle corporation. Il parelleo è lecito: sia in Europa, sia negli Stati Uniti il potere delle democrazie ha abdicato agli interessi del denaro e dei potentati economici.
A ciò va aggiunta la invadente globalizzazione della Nato, la più estesa organizzazione guidata dagli Stati Uniti: ormai una forza di polizia mondiale basata su uno strapotere militare, minaccioso ea dubitativamente lecito. È un potere che ha tolto ogni funzione alle Nazioni Unite – forse ormai inadeguate – e alla loro istituzionale vocazione pacifista. È così che la storia della globalizzazione della Nato, dalla Jugoslavia al Kosovo, dall’Afghanistan alle variegate guerre al terrorismo, ha alimentato devastanti operazioni belliche, brutalmente alternative ad un ordine mondiale democratico.
In concorrenza alle democrazie occidentali un blocco di capitalismo autoritario si sta costituendo fra Russia e Cina. I recenti accordi tra Vladimir Putin e Xi Jin Ping hanno sancito e celebrato precise, ben al di là di un semplice trattato economico sul gas. Si tratta in verità di un’alleanza di Stati autoritari, con una popolazione di circa un miliardo e seicento milioni di persone, nel territorio che va dai confini della Polonia al Pacifico e dal circolo artico alla frontiera afghana, compresi altri Stati come ad esempio la Corea del Nord, la Georgia, l’Armenia.
Mentre il binomio “capitalismo – democrazia” è ideologicamente degenerato in “capitalismo – mercato”, creando povertà e disuguaglianze, le élite politiche si sono via via indebolite con le loro istituzioni, dando vita alla lenta, evanescente riduzione dei poteri dello Stato, sempre più sostituiti dall’impero del mercato.
Laddove invece, nella Repubblica Popolare Cinese e nella Russia di Putin, i modelli di Stati dominanti sono ancora estremamente vitali, pur nella loro varietà, un forte interesse comune nei confronti sia della politica estera che della politica interna li unisce e li aggrega. Per la politica estera basterà ricordare il loro identico voto nel Consiglio di Sicurezza e nel sostegno a dittature sanguinarie come quella della Siria, nonché il loro comune risentimento nei confronti di un ordine mondiale imposto dagli Stati Uniti. Per la politica interna, la strategia economica appare identica nell’assicurare i benefici di un’integrazione globale ed una notevole apertura nei confronti di una modernizzazione, che avvenga nell’identico controllo ideologico sulla popolazione e nella repressione dei dissidenti.
L’economia russa e quella cinese sono aperte alle pressioni dell’economia globale, ma l’allocazione delle ricchezze è determinata non già dalle forze irrazionali e sovente oscure del mercato, ma dagli apparati centrali di uno Stato nelle mani di un’organizzazione politica centrale, di oligarchie di comando, dirette da un Presidente e dai suoi fedeli subordinati. Incredibilmente eguale e scambievole è l’esaltazione del Capo, tant’è che uno dei maggiori best seller nelle librerie cinesi è la biografia di: “Putin il grande”.
La libertà del mercato capitalista consente a tali élite di mantenere il potere, poiché la libertà privata a livello individuale, di comprare e vendere, di ereditare e muoversi ed arricchirsi, da un lato facilita la crescita economica che il completo controllo dello Stato non potrebbe garantire, ma dall’altro diminuisce la domanda delle libertà pubbliche e politiche da parte dei cittadini.
Il nuovo capitalismo autoritario porta con sé un fascino che sta altresì seducendo le élite politiche di vari Paesi africani, sudamericani ed asiatici, presentando l’alternativa a uno sviluppo economico moderno, nella crescita senza democrazia e nel progresso senza libertà politica. È così che il fascino dell’autoritarismo scivola spesso in una sorta di apprezzamento o passione per i tiranni, magari nella veste di esperti, costantemente comunque indifferenti al destino dei diritti umani.
Un evento completamente nuovo si sta peraltro verificando ad Hong Kong, dove una protesta pacifista, dominata dagli studenti che si identificano nell’organizzazione “Occupy Central”, sta chiedendo le dimissioni del reggente della città, dal 1997 sotto la sovranità cinese come speciale regione amministrativa, ma con un proprio riconosciuto sistema legale. I dimostranti, protagonisti di quella che viene chiamata “Umbrella revolution”, chiedono elezioni popolari per la nomina del reggente, attualmente scelto da un Comitato di membri legati a Pechino e una maggior partecipazione democratica nella vita politica e sociale.
Il comportamento del governo cinese è ancora estremamente incerto.
La conclusione, peraltro, sembra a questo punto quantomeno paradossale. Negli Stati autoritari serpeggia crescente una nuova spinta verso i diritti umani di libertà politica, mentre negli Stati liberali la democrazia è addirittura considerata un fenomeno sorpassato, tanto da non essere, come ha correttamente rilevato nel suo recente libro William Easterly, (“The Tyranny of Experts: Economics, Dictators, and the Forgotten Rights of the Poor”) neppure menzionata dallo statuto della Banca mondiale tra i suoi peraltro nobili scopi. Se la concorrenza fra capitalismo autoritario e quello liberale dovesse improvvisamente svolgersi sul terreno della conquista e difesa dei diritti umani, piuttosto che sul predominio mercantile e militare, l’attuale globalizzazione senza regole troverebbe finalmente un suo destino di civiltà.