Defenestrata, senza tanti complimenti, dal suo bell’ufficio al New York Times , l’ex direttrice Jill Abramson, nella prima uscita pubblica, ha fatto appello alla resilienza. «Mio padre mi ha insegnato che è importante saper gestire il successo tanto quanto le battute d’arresto», ha esordito invitando la platea di giovani laureati americani che aveva di fronte — i quali, stando alle statistiche, arrivano a cambiare anche venti posti di lavoro nel corso della vita — a sviluppare la capacità di andare avanti adattandosi ai cambiamenti: «Che cosa mi riserva il futuro? Non lo so. Come vedete, siamo sulla stessa barca. Come voi ho un po’ di paura, ma sono anche eccitata».
È d’obbligo essere flessibili, agili, allenati (tutti concetti presi dal mondo del fitness ). Ora anche resilienti. Per gli ingegneri, la resilienza è la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi; nel campo dell’ecologia, è la capacità di un ecosistema di sfuggire a un livello irreversibile di degrado (idea che sta stringendo all’angolo la vecchia sostenibilità: «Dove la sostenibilità mira a mettere il mondo in equilibrio, la resilienza cerca i modi migliori per gestire un mondo squilibrato», spiega Andrew Zolli nel suo saggio «Resilienza», pubblicato da Rizzoli); per gli psicologi, è la capacità di un individuo di superare efficacemente un trauma, ripartendo in modo sano e positivo. In fondo, la resilienza è la nuova resistenza. Resistere significa stare fermi, stoicamente. Ma in un mondo in cui la volatilità di ogni settore è diventata la normalità, che senso ha tenere la posizione quando attorno tutto sta cambiando? La resilienza non è fissità, ma movimento dialettico. Francesco Botturi, docente di filosofia morale in Cattolica a Milano, spiega che resilienza significa «saltare indietro, in modo da prendere la rincorsa e, di slancio, superare l’ostacolo».
Prendiamo due cinquantenni qualsiasi, due laureati, licenziati dalle proprie aziende. Entrambi è logico che vadano in tilt. Ma per uno il malumore e le crisi d’ansia sono transitorie: «Non è colpa mia, è l’economia che sta attraversando un brutto periodo. Sono bravo in quello che faccio, avrò un’altra occasione». Aggiorna il curriculum e si dà da fare per procurarsi nuovi incontri. Ricalibra i propri obiettivi, e alla fine ce la fa. Il secondo reagisce in modo diverso: «Ho cinquant’anni. Con la crisi che c’è, nessuno mi assumerà mai». E torna a vivere con i genitori.
Perché uno crolla mentre l’altro riesce a riprendersi? Maria Elena Magrin, docente in Bicocca a Milano e da anni studiosa di resilienza, spiega che «ciascuno di noi ha un proprio bagaglio di resilienza». Solo che in alcuni è decisamente più pesante, non perché siano persone superficiali o ingenue, ma perché sanno vedere le crisi come sfide da superare non come problemi insormontabili e accettano che il cambiamento sia parte della vita, non un disastro. Atteggiamenti mentali che è possibile imparare. «Stiamo assistendo alla disfatta di tante idee con cui siamo cresciuti — riprende Magrin —. Molti di noi stanno bene quando hanno tutto sotto controllo, in famiglia come nel lavoro. Per riuscire a mantenere questo stato, continuano ad aumentare le proprie competenze». Ma ora non basta più: dopo 10 anni di lezioni e viaggi all’estero, quando finalmente abbiamo imparato l’inglese, è il cinese, o l’arabo, la nuova lingua da conoscere. «Oggi non sai cosa ti servirà, manca un luogo di stabilità su cui costruire il controllo. La domanda è: posso in questa mia instabilità costante perseguire l’obiettivo di una vita soddisfacente?». I resilienti rispondono sì.
«Unbroken», il film prodotto e diretto da Angelina Jolie, racconta la vita straordinaria di Louis Zamperini, campione olimpico spedito al fronte durante la Seconda guerra mondiale, catturato, torturato. Liberato nel ‘45, tornò a casa e si ricostruì una vita felice e piena. Era riuscito, per usare un’espressione di Anna Oliverio Ferraris, a «proteggere la propria integrità sotto l’azione di forti pressioni», trovando le energie per ripartire.
È dunque resilienza la parola chiave della modernità? In assoluto no, risponde Botturi. Ma siccome «viviamo in un mondo complesso, che da attori ci ha ridotto ad ingranaggi; che ha messo in crisi gli schemi di relazione, gettandoci in un terreno selvaggio. Allora sì, la resilienza può diventare la cifra di un uomo che cerca le risorse per balzare avanti e diventare non solo fruitore di tecnologia, ma costruttore della propria vita».
Perché uno crolla mentre l’altro riesce a riprendersi? Maria Elena Magrin, docente in Bicocca a Milano e da anni studiosa di resilienza, spiega che «ciascuno di noi ha un proprio bagaglio di resilienza». Solo che in alcuni è decisamente più pesante, non perché siano persone superficiali o ingenue, ma perché sanno vedere le crisi come sfide da superare non come problemi insormontabili e accettano che il cambiamento sia parte della vita, non un disastro. Atteggiamenti mentali che è possibile imparare. «Stiamo assistendo alla disfatta di tante idee con cui siamo cresciuti — riprende Magrin —. Molti di noi stanno bene quando hanno tutto sotto controllo, in famiglia come nel lavoro. Per riuscire a mantenere questo stato, continuano ad aumentare le proprie competenze». Ma ora non basta più: dopo 10 anni di lezioni e viaggi all’estero, quando finalmente abbiamo imparato l’inglese, è il cinese, o l’arabo, la nuova lingua da conoscere. «Oggi non sai cosa ti servirà, manca un luogo di stabilità su cui costruire il controllo. La domanda è: posso in questa mia instabilità costante perseguire l’obiettivo di una vita soddisfacente?». I resilienti rispondono sì.
«Unbroken», il film prodotto e diretto da Angelina Jolie, racconta la vita straordinaria di Louis Zamperini, campione olimpico spedito al fronte durante la Seconda guerra mondiale, catturato, torturato. Liberato nel ‘45, tornò a casa e si ricostruì una vita felice e piena. Era riuscito, per usare un’espressione di Anna Oliverio Ferraris, a «proteggere la propria integrità sotto l’azione di forti pressioni», trovando le energie per ripartire.
È dunque resilienza la parola chiave della modernità? In assoluto no, risponde Botturi. Ma siccome «viviamo in un mondo complesso, che da attori ci ha ridotto ad ingranaggi; che ha messo in crisi gli schemi di relazione, gettandoci in un terreno selvaggio. Allora sì, la resilienza può diventare la cifra di un uomo che cerca le risorse per balzare avanti e diventare non solo fruitore di tecnologia, ma costruttore della propria vita».