“LE REGIONI e i Comuni eleggeranno la seconda Camera”: è un titolo dell’ Unità del 17 ottobre del 1946 e dà conto dei lavori della Assemblea Costituente.
CITA, più esattamente, un ordine del giorno approvato dalla seconda sottocommissione con l’astensione di comunisti e socialisti: prevede che il Senato sia eletto per un terzo dalle Regioni e per due terzi dai Comuni. Nello stesso numero del giornale un autorevole costituzionalista come Vezio Crisafulli critica appunto “la struttura della seconda Camera”(questo il titolo dell’articolo), vi vede un contrappeso conservatore. Solo curiosità d’epoca, naturalmente, ma ben al di là di esse il clima generale del dibattito di allora andrebbe ricordato a quanti urlano di “Costituzione stracciata” o minacciano di abbandonare il Parlamento (per la verità lo aveva già fatto Silvio Berlusconi l’autunno scorso, e sappiamo come è andata a finire). Quel clima andrebbe ricordato soprattutto perché spiega bene le ragioni per cui si affermò allora il bicameralismo perfetto: è sufficiente rileggere il discorso con cui De Gasperi inaugurò a Roma nel maggio del 1946 la campagna elettorale della Dc per la Costituente. In esso vi è un attacco frontale alla “dittatura di una sola assemblea” che non ha nulla di astratto ed è in polemica aperta con le sinistre: critica infatti duramente “quei partiti che, come s’è visto in Francia, vogliono condurci ad una Repubblica dominata da una sola assemblea, il che vuol dire quasi sempre dagli uomini più audaci e senza scrupoli, assemblea che finisce nel comitato di salute pubblica e nella dittatura di un partito o di un uomo”. Il riferimento alla Francia era fondato: per la forte spinta di quel partito comunista la Costituente aveva varato una Carta che aveva al centro appunto il monocameralismo e il “governo dell’assemblea”. E il leader del Pcf Maurice Thorez aveva evocato addirittura i soviet per rivendicare sostanzialmente all’assemblea potere legislativo ed esecutivo insieme (poi attenuerà questi toni, del tutto assenti nelle posizioni del Pci). Le forze moderate francesi avevano fatto leva proprio su questo per alimentare la paura di un governo “giacobino” e nel previsto referendum quella Carta Costituzionale era stata affossata pochi giorni prima del discorso romano di De Gasperi. In Francia si vota per una nuova Costituente il 2 giugno, contemporaneamente all’Italia, e alla vigilia Pio XII alza il suo monito: sapremo domani, dice, se “queste due sorelle latine vorranno affidare il loro avvenire alla impassibile onnipotenza di uno Stato materialista, senza religione e senza Dio”. O con Cristo o contro Cristo, insomma. Questo era il clima che spingeva alla messa a punto di contrappesi e di organi di garanzia, e in Italia i risultati elettorali di quei mesi non potevano che ingigantire le paure. L’incertezza fu
a lungo massima, e l’esito finale — il plebiscito democristiano del 18 aprile 1948 — fu di fatto il rovesciamento, non la conferma, delle dinamiche che avevano tenuto il campo nei due anni precedenti (nel periodo, cioè, in cui la Carta fu scritta). Già il 2 giugno del 1946 la somma dei voti socialisti e comunisti aveva sopravanzato nettamente quelli della Dc, e le consultazioni immediatamente successive registrarono veri e propri crolli del partito cattolico: a partire dalle elezioni amministrative dell’autunno del 1946, che a Roma e in tutte le principali città del Mezzogiorno videro l’esplosione dell’Uomo qualunque e delle destre (vi furono arretramenti significativi della Dc anche nelle città del nord in cui si votò allora, da Torino a Genova e a Firenze). Nel febbraio del 1947, poi, le elezioni siciliane sancirono sia un importante successo del “Blocco del popolo” — una anticipazione dello schieramento che le sinistre avrebbero messo in campo il 18 aprile — sia un nuovo, forte arretramento della Dc. Si tenga conto che le elezioni politiche erano inizialmente previste per l’autunno del 1947 e si comprenderà ancor meglio quell’insistita e quasi esasperata attenzione all’inserimento di contrappesi e garanzie: dal bicameralismo perfetto alla difficoltà stessa di modificare la Carta e sino alla Corte Costituzionale e ad altro ancora. Attenzione ingigantita, naturalmente, dalla “cortina di ferro” — per dirla con Winston Churchill — che stava calando nell’Europa orientale, sino al “colpo di stato di Praga” del febbraio 1948 (in questo caso la definizione è di François Feitö). E la paura, naturalmente, era reciproca.
Quello era il clima, ed esso in qualche modo continuò con segno rovesciato dopo il 18 aprile: all’indomani del proprio trionfo la Democrazia cristiana si guardò bene dal dare attuazione agli organi di garanzia previsti, a partire dalla Corte Costituzionale (furono le sinistre a chiederlo con insistenza). E Mario Scelba nel 1950 esplicitò brutalmente la filosofia di allora: la Costituzione, disse, non può “divenire una trappola per la libertà del popolo italiano”. Ci vollero molti anni perché la Costituzione fosse più largamente attuata e quel clima cambiasse: e quando esso mutò Umberto Terracini, che della Costituente era stato Presidente, fu tra i primi a dire che il Senato era ormai superato ed era meglio abolirlo. Lo scrisse già alla fine degli anni settanta: ma chi sarà mai Umberto Terracini in confronto a quella Loredana De Petris che sta guidando ad un soddisfatto suicidio i residui irresponsabili di Sel? Per non parlare naturalmente della deriva nullista dell’estremismo grillino, tornato a prevalere dopo la breve illusione di un ripensamento. I tempi cambiano, naturalmente, ma quel che si è visto al Senato è davvero un pessimo segnale.
da la Repubblica