Le grandi tragedie navali italiane hanno segnato un mutamento d’epoca. Siamo un popolo di naviganti e in epoca di comunicazioni rapide forse siamo rimasti tali. Le tragedie d’acqua segnano il nostro destino, marcano il nostro immaginario, alimentano la volontà di ripresa, elevano il senso di riscatto. È’ sempre stato così. E il dramma della “Concordia” sta a testimoniarlo.
Non c’è un solo italiano che non si sia affranto e rammaricato per l’incidente del Giglio, quasi che quella nave simboleggiasse la nostra grandezza, il nostro prestigio, la nostra consapevolezza comune.
Non a caso il premier Matteo Renzi, ieri a Genova, ha fatto scattare un senso d’orgoglio per l’impresa di portare il colosso del mare sulla banchine genovesi con una soluzione tecnica inedita e per le prospettive che si aprono per i porti italiani, per le costruzioni e le demolizioni navali.
Come in un romanzo di Joseph Conrad il mare è la metafora della nostra misura di società e chi compie il viaggio all’inferno e ne ritorna vivo ha una considerazione nuova della solidarietà. È questo concetto di rinascita che sta dietro a parole semplici come quella di Renzi: «Non bisogna rassegnarsi al declino, l’Italia può ripartire». Come si sentì l’Italia dopo il 26 luglio 1956 quando la «Andrea Doria» andò a picco a diciannove miglia dal faro di Nantucket? A tutti parve che le acque dell’Atlantico avessero inghiottito, quasi annientato, la faticosa ripresa italiana dopo le distruzioni belliche. Invece ne uscimmo fuori con il boom economico degli anni sessanta.
Eancora prima, cosa provarono i nostri padri e nonni, quando la “Corazzata Roma” fu abbattuta il 9 settembre 1943 al largo dell’Asinara dagli aerei tedeschi con il sacrificio di 1.253 marinai? Pensarono che non avremmo più avuto un destino sui mari, invece rimettemmo in piedi una flotta militare, una civile ed una passeggeri. Ne uscimmo con la certezza che l’unità antifascista era un valore nazionale che saldava civili e militari, partigiani e soldati. Su quella base nacque la Resistenza e si fondò la Costituzione italiana.
Non è forse vero che l’affondamento del piroscafo “Principessa Mafalda”, il “Titanic italiano”, la notte del 25 ottobre 1927 in prossimità delle coste brasiliane, trascinando con sé 314 persone, segnò una svolta nell’emigrazione? La Navigazione Generale Italiana aveva anticipato che la nave non era in condizioni di fare la lunga traversata dell’Atlantico, ma tale era la richiesta di passaggi che si decise lo stesso di procedere al viaggio. Molti di loro erano «rondini», uomini di fatica che andavano in Argentina per la raccolta, prendevano i soldi e rientravano in Patria. Ci rendemmo conto che i nostri poveri connazionali in cerca del sogno americano, non potevano viaggiare senza sicurezza. E fu così che nacque quel fantastico mondo dei transatlantici italiani, colossi del mare che facevano invidia in tutti i principali porti.
E più recentemente, alla fine del secolo scorso, vedemmo perire in un incendio nel golfo della Spezia nel 1980 il nostro vanto, la «Leonardo da Vinci» e quindi nel 1994 anche l’«Achille Lauro» bruciò al largo della Somalia. Fu allora che nacque il nuovo sistema della navi da crociera, il business del turismo internazionale.
Il caso «Concordia» rappresenta dunque il paradigma di queste storie di mare: torna nel luogo dove era nata nove anni fa; le sue fattezze eleganti saranno distrutte pezzo per pezzo. Per evitare la caccia ai reperti pregiati – così come per il Muro di Berlino – gli strumenti marittimi saranno esposti al Museo del Mare Galata. Pensate un attimo a quanto avvenuto ieri: una città si è mobilitata per una nave che va a morire, non per una nave che salpa. Come in un spettacolo pirotecnico si sono affittati balconi a mille euro e si è aperta la Lanterna al pubblico per un relitto.
Eppure, in apparenza, questa operazione nessuno l’avrebbe mai desiderata: demolire una nave naufragata due anni e mezzo fa con il suo carico di 32 vittime. Adesso la scommessa è quella di rimettersi in gioco non solo sulle costruzioni navali con i nostri agonizzanti cantieri, ma di riprendere il mercato delle demolizioni, oggi esclusivamente in mano a Pakistan, Bangladesh e Cina, alla Turchia e dell’Est Europeo. L’Italia ha già conosciuto una certa fama nel settore delle demolizioni, abbandonato per i troppi costi umani e ambientali.
Si potrà riprendere? L’idea è quella di un polo dell’Alto Tirreno con Piombino per le demolizioni militari e Genova per quelle civili,ma con certificazioni derivanti dal trattato di Hong Kong e tecnologie comprovate. Alla fine il materiale estratto dal relitto rientrerà nel mercato sotto forma di travi per cemento armato, di lamiere per auto ma anche per costruzioni navali. Così l’acciaio della «Concordia» tornerà a solcare il mare.
da L’Unità