Quindici anni fa, quando la parola d’ordine era federalismo, la modifica del Titolo V della Costituzione, realizzatasi in un’ottica di parte e di breve periodo, ha dato risultati deludenti: il riassetto delle autonomie territoriali, architettato in modo frettoloso e disorganico, ha creato numerose disfunzioni, delle quali ancora oggi paghiamo le conseguenze.
Oggi, i temi che scaldano l’opinione pubblica sono il taglio dei costi della politica e il superamento del bicameralismo perfetto. Anche queste sono questioni importanti, come importante era darsi un assetto federalistico decente. Ma, oggi come allora, le modifiche a elementi portanti dell’impianto istituzionale del nostro Paese rischiano di venire forgiate dalla reattività dello scontro politico e dell’interesse di partito di breve termine.
Va da sé che una discussione, anche accesa, su una materia così delicata non è solo scontata ma anche opportuna. Per questo sarebbe sbagliato giudicare negativamente il confronto, talora aspro, magari condito con iniziative forti volte a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui punti più controversi. Tutto ciò fa parte di un ritualismo di cui la democrazia non può fare a meno.
Ben diversa è però l’aria che si respira in questi giorni, dove i toni dello scontro rischiano di arrivare a spezzare quel presupposto comune che le istituzioni democratiche devono comunque salvaguardare, se vogliono poter funzionare. Di fronte ad un tale spettacolo viene da chiedersi: si può mettere mano alla Costituzione senza preoccuparsi di ricreare uno «spirito costituente»? Se non si è lavorato per costruire una prospettiva inclusiva di interesse generale, come potrà la nuova Costituzione essere riconosciuta giusta da tutti? Non porterà dentro di sé, come una sorta di vizio d’origine, un deficit di bene comune?
Come quando si litiga in famiglia, dire adesso chi ha ragione e chi torto è impossibile. E, proprio come nei litigi tra parenti (dove, come nel caso della politica, è impossibile mandarsi semplicemente al diavolo) la matassa è destinata a ingarbugliarsi ulteriormente nella misura in cui in ballo ci sono anche altre dimensioni cruciali (come la legge elettorale). Tanto più che i protagonisti amano rivolgersi ciascuno ai propri supporter a suon di tweet e pagine Facebook, come noto non esattamente ambiti istituzionali dove le parole sono misurate e il dibattito argomentato.
Renzi, che può contare su un vasto consenso popolare, ha ragione a dire che si deve cambiare. E che non basta dire di no. Ma se siamo a questo punto è anche per il modo in cui la questione è stata posta: aver trasformato la riforma costituzionale — per definizione complessa e delicata — nella madre di tutte le riforme è stata una forzatura, aggravata dall’aver contemporaneamente aperto il nodo elettorale (che tocca la stessa sopravvivenza dei partiti). Il tutto senza una chiara cornice di senso, se non il taglio dei costi della politica e la mitica governabilità, a cui da sempre lo stesso Pd è stato piuttosto allergico. Il governo non dimentichi che il suo primo dovere è quello di governare: ed è l’ambito economico e sociale — che peraltro nell’Italia di oggi versa in condizioni critiche — quello che merita la massima e più urgente attenzione. Osservazione valida anche pensando all’Europa che aspetta riforme convincenti. Nell’orizzonte dei 1.000 giorni che si è dato il premier — che significa lavorare con un Parlamento che esprime equilibri elettorali precedenti alla sua ascesa politica — c’è certamente modo di arrivare alle riforme costituzionali: senza dimenticare che, quando si parla di Costituzione, il metodo e lo spirito sono sostanza.
L’opposizione, da parte sua, ha tutto il diritto di sollevare le questioni che ritiene opportune. Ma ciò non può significare praticare l’ostruzionismo parlamentare, gridare al golpe, accusare il primo ministro e il presidente della Repubblica di autoritarismo. Si può e si deve discutere. Ma alla fine si deve potere anche decidere.
Quando ero bambino, c’era un anziano parente che, in dialetto lombardo, censurava le situazioni caotiche con l’esclamazione: l ’è cum’è una repubblica . Probabilmente nostalgico dell’ordine monarchico, l’antenato panettiere stigmatizzava così il rischio che la democrazia sempre corre di implodere quando le parti che la costituiscono dimenticano il bene superiore che le unisce. Di fronte a quanto sta accadendo in questi giorni, mi chiedo cosa possa pensare della democrazia un giovane — ammesso e non concesso che oda gli echi dello scontro — in un momento in cui il suo presente è gramo e il suo futuro indecifrabile.
Ha ragione Grasso: speriamo che il weekend porti consiglio, così da vedere, nelle prossime ore, un’iniziativa politica coraggiosa, in grado di interrompere la spirale nella quale siamo finiti.
da Il Corriere della Sera