La fiducia si costruisce con il coraggio della verità, i tempi e le modalità di questa lunga crisi non sono uguali per tutti. Prima la frenata delle previsioni del pil italiano, ora il dato della produzione industriale di maggio (-1,8% sul 2013) che supera le più negative aspettative e sembra spegnere i segnali, cautamente positivi, che pure si percepivano. Il tasso di disoccupazione giovanile ha superato da tempo la soglia della sostenibilità, il divario tra le due Italie ha assunto dimensioni strutturali mai raggiunte in passato. Il peso della tassazione su imprese e banche, frutto di un’eredità abnorme, e il peso, altrettanto abnorme, di una burocrazia ossessiva, chiudono spazi vitali di crescita, in casa, sia per le forze sane della produzione (ci sono e lottano nel mondo) sia per quelle giovanili di talento (ci sono e si affermano nel mondo).
Questa è la realtà italiana. Figlia di colpe nostre, evidenti, e di colpe europee, che hanno la loro origine in un eccesso di rigore. Se anche la Germania è costretta a chiudere un trimestre con una crescita dello zero virgola vuol dire che la malattia è costitutiva e impone di cambiare in profondità. Non c’è più tempo da perdere per lanciare un New Deal europeo fatto di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali e di una nuova governance che sappia affiancare al Fiscal Compact una vera azione di sviluppo, una difesa unica e una politica estera che promuova la qualità e il valore della nostra manifattura e dei nostri primati tecnologici nell’arena globale delle merci e dei servizi. La palude nella quale i popoli periferici dell’Europa, a partire da quello italiano, rischiano di smarrirsi è quella del rigore a senso unico, non altre. Con questa palude, l’Europa deve fare i conti in Europa e l’Italia deve fare i conti in Italia. Le elezioni sono finite, il governo Renzi prenda atto che ribaltare il tavolo europeo non è possibile, ma non smetta di battersi come ha fatto finora per cambiare le cose, passo dopo passo. Anche perché l’Europa deve almeno capire che un’altra manovra l’Italia non può permettersela per sé e per la stessa Europa.
Si renda, però, conto il premier che la sua partita è in casa e non si può vincere in tempi stretti. Bisogna sporcarsi le mani con la fatica dei decreti e della loro attuazione parlando alla coscienza del Paese e attingendo con umiltà alle sue risorse migliori (ci sono anche sopra i 40 anni) per cambiare la macchina dello Stato, centrale e territoriale, e ridurre almeno il tasso di angheria che subiscono imprese e cittadini. Si intervenga con serietà sulla macchina della giustizia civile, amministrativa, fiscale e penale. Si paghino, per davvero, i debiti contratti dallo Stato con il sistema produttivo. Per fare tutte queste cose si scelgano e si retribuiscano adeguatamente gli uomini che sono in grado di cambiare. Questo è obbligatorio se si vogliono condurre in porto, alla voce fatti, i disegni di legge annunciati (anche due volte) e fare in modo che la speranza di una macchina che funzioni diventi realtà. Si faccia di tutto perché l’accesso al credito torni ad essere garantito alle piccole e medie imprese che non hanno ancora alzato bandiera bianca. La liquidità è arrivata copiosa in Italia e molti ne hanno approfittato, ma avevamo avvisato che non si trattava di investimenti di lungo termine e che una correzione era da mettere nel conto. Siamo lontanissimi dalla crisi dell’estate e dell’autunno del 2011, ma alcune Ipo programmate sono già saltate e anche questo di certo non aiuta. Non credano le imprese e il sindacato di sottrarsi alle loro responsabilità. Per uscire dal mondo vecchio non dovranno essere più tollerati compromessi con i vizi di una spesa pubblica improduttiva che corrode alle radici le fondamenta di una comunità e ci ha caricato sulle spalle un debito pubblico abnorme. Così come i troppi gattopardismi che tutelano privilegi e prepotenze a discapito dei giovani di valore e delle tante competenze di ogni età che sono la base civile di un Paese meritocratico. Su questo terreno il sindacato, in particolare, deve capire che il futuro non può essere quello della cassa integrazione in deroga e di un mercato del lavoro cristallizzato. Spetta a un governo all’altezza del compito favorire un passaggio culturale così impegnativo. Servono il coraggio della verità e la dura fatica quotidiana, ma anche compagni di viaggio giusti. Non esistono altre vie per ricostituire una fiducia non effimera.
P.S.Uscire dal bicameralismo perfetto e dire al mondo che il sistema elettorale italiano garantisce finalmente la governabilità, è senza dubbio positivo. Guai, però, a ridare troppi poteri nel nuovo Senato a quelle stesse Regioni che con il nuovo titolo V si vogliono ridimensionare. Anche qui la fatica di cambiare esige serietà e capacità di ascolto.
da Il Sole 24 Ore