In tanto fervore riformatore, quale quello avviato dal Cantiere della scuola del PD, in cui un massiccio intervento su cattedre e tempi di insegnamento sembra costituire il toccasana dei mali che affliggono la nostra scuola, l’amara riflessione di Carlo Rovelli su “la Repubblica” sembra riportare al nocciolo dei problemi uno dei nodi più importanti del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione”: l’incultura scientifica. Il che non è affatto casuale.
In realtà, lungo tutte le riforme che dal dopoguerra in poi hanno interessato il nostro sistema scolastico, il pregiudizio di sempre non è mai stato intaccato. Quel pregiudizio che ha preso corpo con la riforma Gentile, ma che in effetti costituisce il male profondo di tutta la nostra tradizione culturale, o colta che sia. Si tratta del pregiudizio che vuole che la cultura classica sia quella che da sempre connota noi italiani e che, in quanto tale, possa e debba costituire il passaggio obbligato degli studi per chiunque aspiri – e ne abbia le capacità – ad accedere a studi superiori impegnativi e a far parte dell’élite intellettuale del Paese. E in effetti, per certi versi ciò corrisponde a verità. Non a caso, a tutt’oggi gli scienziati migliori sono coloro che hanno percorso gli studi classici. Però, occorre anche considerare che, a monte della scelta degli studi superiori, c’è pur sempre una “certa” famiglia che condiziona lo sviluppo/crescita di un nuovo nato. E’ più che dimostrato che ha più garanzie di successo negli studi il figlio di un ingegnere piuttosto che il figlio di un operaio. In effetti, quella parità nelle scelte degli studi e delle professioni, che è garantita dalla Costituzione, si scontra poi duramente con le reali condizioni di differenziazione sociale, che è anche culturale.
Da parte mia, e di Carlo Rovelli, nulla contro gli studi classici! Anch’io, come Rovelli, sono convinto che “studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra a uno scienziato strumenti più acuminati di pensiero che non passare ore a calcolare integrali”. Ma la questione è un’altra e ha origini lontane: proprio in quel Seicento in cui Galileo – correttamente citato da Rovelli – sembra chiudere per sempre quella unità del pensiero e della ricerca che aveva sempre caratterizzato la nostra tradizione. Galileo è uno scienziato ma nel contempo “uomo di musica e di lettere, profondo conoscitore e amante dell’antichità classica, di Aristotele e di Platone, uomo completo del Rinascimento”, ci ricorda Rovelli. E lo stesso Dante, tre secoli prima, non era solo poeta, ma anche uomo di scienza, per come lo si poteva essere in un mondo in cui erano la fisica aristotelica a farla da padrona e l’universo tolemaico: quindi, un mondo in cui la ricerca scientifica era tutta fondata su ragionamenti apodittici. Si pensi al canto secondo del Paradiso, in cui scientificamente – si fa per dire – Beatrice spiega al poeta il perché delle macchie lunari. E forse per queste ragioni la Commedia per secoli e secoli non venne considerata alta poesia! Troppo intrisa di strani elucubrazioni! Ma nel contempo riscuoteva un continuo e indiscusso successo la poesia del Petrarca. Di qui il petrarchismo, uno dei limiti – o dei mali? – della nostra cultura.
Ed è proprio dalla fine del Seicento che hanno inizio quella separazione tra arte e scienza, tra poesia e prosa, se vogliamo – suffragata poi dal saggio crociano – e il lento prevalere delle discipline umanistiche sulle altre. Non diamo, quindi, tutta la colpa a Gentile e al suo liceo classico. Anche perché nella medesima riforma del 1923 viene istituito il liceo scientifico. Che non ebbe però l’autorevolezza culturale del classico. In effetti si trattò di un’operazione di maquillage: niente greco e qualche ampliamento nelle ore dedicate alle materie scientifiche. Di fatto venne vissuto – e ancora oggi del resto – come un liceo classico “facilitato”!
Sono quindi profonde le radici che hanno condotto a questa tripartizione gerarchica della nostra istruzione superiore: prima il liceo e poi, a scendere, l’istruzione tecnica e infine l’istruzione professionale. Ed è lungo questi tre filoni che poi si distribuiscono le iscrizioni dopo la scuola media, “confortate” anche – con tanto di virgolette – dai giudizi di orientamento degli insegnanti. E nulla conta il fatto che l’obbligo di istruzione oggi è di dieci anni e che gli studi primari essenziali devono concludersi con la certificazione delle competenze di cittadinanza e delle competenze culturali di base acquisite al termine di un primo biennio superiore ove vige – o dovrebbe – “l’equivalenza formativa di tutti i percorsi” di studio (dm 139/07, art. 2).
La situazione è grave. Se neanche nell’ultimo biennio obbligatorio riusciamo a garantire l’unitarietà degli studi essenziali, è estremamente difficile che tale unitarietà la si possa attivare nei tre trienni successivi. Ne viene a soffrire quella stessa unitarietà dei saperi proprio in una società “della conoscenza” che si fa sempre più complessa e che non fa sconti tra l’oggetto “classico” e quello “scientifico”. Occorrerebbe garantire, invece, che percorsi umanistici, tecnici e professionalizzanti fossero tutti di pari dignità e non percorsi in cui dirottare cervelli da una parte e manovalanza dall’altra. Le esigenze di una società avanzata sono ben altre e non ammettono gerarchie in verticale, ma solo in orizzontale. Pertanto, lo stesso riordino dei nostri studi secondari superiori non dovrebbe avvenire in verticale, come si preannuncia, cioè con il taglio netto del quinto anno; ma in orizzontale, cioè nel riuscire a dare pari dignità a tutti i percorsi. Non è un’operazione facile, ma è l’unica che nel tempo riuscirebbe a riallineare quelle classi sociali che da sempre sono ben separate tra loro. Si tratterebbe di un’operazione culturale e civile nel contempo! Anche perché non è vero che gli studi classici non sono altrettanto “scientifici”: basti pensare al rigore che occorre per la scrittura di un testo originale e/o per l’interpretazione di un testo! E la linguistica non è forse una scienza? E lo stesso dicasi per la filologia. E quanto ha faticato Dewey a mettere ordine in biblioteche sempre più piene di libri sempre meno rintracciabili!?
E, se non si provvede in tempo, correremo il grosso rischio di perdere pezzi e battute anche nella nostra tradizionale cultura umanistica. L’incuria per il nostro patrimonio artistico è un segnale preoccupante: Si intervenga presto su questi problemi, ma sempre con una prospettiva lungimirante. La vista corta non solo non ci porterà lontano, ma creerà solo ulteriori difficoltà. Non vorrei che la fretta “renziana” – ovviamente apprezzabile in un Paese da decenni vittima di un’insana immobilità – producesse però tanti gattini ciechi!
da Scuola oggi