«Vogliamo stabilizzazione»
L’università italiana è, letteralmente, tenuta in piedi dai precari. I dati del Miur – del 2012, gli ultimi disponibili – danno un’idea delle dimensioni: i docenti sono oltre 52mila strutturati, ma erano 60 mila nel 2008; i docenti temporanei sono 32mila, ma erano meno della metà – 15mila – nel 2005. Nello stesso periodo c’è stato un boom degli assegni di ricerca, passati dai 10.251 del 2005 ai 20.078 del 2012. La curva è ancora più inclinata nella duplicazione dei ricercatori a tempo: erano solo 6 nel 2004, sono 2.871 nel 2012.
Ma il dato che dà l’idea di quanto il precariato sia una malattia incurabile nell’università italiana è quello che riguarda la percentuale di stabilizzazione di questo esercito di precari: solo il 6,7 per cento di loro ha avuto un posto a tempo determinato nell’arco degli ultimi dieci anni.
Se questi sono «i grandi numeri», per la prima volta qualcuno ha cercato di fare un’analisi qualitativa del precariato universitario: la Flc-Cgil ha commissionato una ricerca ad un pool di ricercatori – rigorosamente precari – coordinati da Emanuele Toscano per capire meglio chi sono e cosa si aspettano dal futuro. Il quadro che esce dai 1.861 questionari compilati è sconfortante. L’età media è di 35 anni, sono in prevalenza donne (57 per cento), quasi il 27 per cento ha figli, ma il 28 per cento non ha una casa. Il dato che più colpisce rispetto alla loro carriera universitaria è quello del numero dei contratti: in media sono 6,2, ma oltre il 10 per cento può annoverare più di 13 contratti con punte – si spera inarrivabili – di addirittura 31 contratti. Il percorso lavorativo di questi dottori è una specie di calvario, acuito dall’autonomia che ha trasformato i singoli atenei in aziende in cui bisogna far tornare i conti tagliando naturalmente sul costo del personale: si passa senza soluzione di continuità da assegni di ricerca – la forma contrattuale che va nettamente per la maggiore rappresentando quasi il 50 per cento del totale – a co.co.pro, da dottorati a posti da ricercatore a tempo determinato, mentre le cattedre sono sempre più un miraggio anche a causa di baroni inamovibili che vedono la pensione come una iattura da scansare a qualunque costo. La docenza – tenere corsi, lezioni ed esami – quindi è spesso un optional naturalmente non retribuito: lo fa l’80 per cento dei ricercatori a tempo indeterminato, oltre il 60 per cento dei ricercato a tempo determinato e – questo il dato più allarmante – quasi il 50 per cento dei precari con contratto parasubordinato. L’altra faccia della medaglia è quella della risposta con cui il 30 per cento dei precari ammette di aver «spesso» «svolto lavoro non retribuito».
Contratti dunque come roulette, quasi sempre mettendo da parte la competenza e il merito. Un intervistato su tre specifica che il contratto attuale «utilizza poco o per nulla le competenze professionali acquisite lavorando all’università». Peggio stanno comunque il 16 per cento di intervistati che non lavorano più nell’università. E le motivazioni per questo addio non sono solo strettamente di contratto – il mancato rinnovo lo è per il 55 per cento delle donne e il 53% degli uomini – visto che per circa il 40 per cento è dovuto al fatto di «non avere alcuna possibilità di crescere professionalmente» – 19,3 per cento – o «per una scelta legata all’instabilità professionale» – 18,5 per cento. Territorialmente i precari sono più presenti nelle università del Nord – 50 per cento – e negli atenei più grandi – il 54 per cento si concentra nelle università con più di 20mila studenti. Chi ha ancora un contratto non è comunque soddisfatto: il 62 per cento si definisce «poco» o «per nulla soddisfatto» della propria condizione contrattuale, mentre il 53,2 per cento non riesce a immaginare il proprio futuro professionale fra 10 anni e conseguentemente sono pronti ad irrobustire la schiera dei cervelli in fuga: ben il 60 per cento dei dottorandi «considerano molto o del tutto probabile lasciare l’Italia per lavorare all’estero in ambito accademico».
«RISPOSTE O MOBILITAZIONE»
La ricerca è stata presentata ieri mattina alla facoltà di Architettura di Roma Tre ed è stata l’occasione per la Flc Cgil di lanciare la mobilitazione sull’intero comparto scuola-università. «Ormai infatti anche nelle scuole i docenti entrato con contratti da co.co.co e le chiamate dirette delle scuole premiano il clientelismo e mai il merito», sottolineano dal sindacato. «Vogliamo rilanciare il tema della stabilizzazione del precariato che è ormai sparito dal dibattito politico – spiega il segretario generale Mimmo Pantaleo – perché in questi anni sono i precari ad aver garantito il funzionamento di scuola e università. Per questo chiediamo il ripristino del 100 per cento del turn over e una flessibilità nell’età pensionabile. Se non avremo risposte dal governo – chiude Pantaleo – in autunno lanceremo una grande mobilitazione nazionale».
da L’Unità