Punto di forza, nonostante tutto, del sistema educativo italiano, il primo ciclo d’istruzione è il cardine della scuola democratica, inclusiva, strumento di promozione della persona e della società tutta. È il luogo dove si impara ad imparare, dove si acquisiscono le conoscenze di base e i prerequisiti logici e metodologici delle discipline, dove si avvia l’educazione alla cittadinanza, al rispetto di sé e degli altri, alla comprensione della complessità.
In questo delicato processo, alla Storia viene affidato il compito di formare nei cittadini, fin dall’infanzia, la coscienza del divenire e della collettività, motivandoli “al senso di responsabilità nei confronti del patrimonio e dei beni comuni” (Indicazioni nazionali 2012), in sintonia con l’art. 9 della Costituzione, ed educandoli al confronto. Nonostante la riduzione delle ore d’insegnamento e nonostante il programma curricolare preveda come contenuti obbligatori solo la preistoria e la storia antica, il sapere storico entra in gioco in molti altri aspetti e momenti dell’istruzione. La scuola primaria è dunque chiamata a “esplorare, arricchire, approfondire e consolidare la conoscenza e il senso della storia” in tutti i modi possibili, attraverso l’esplorazione del territorio, la scoperta dei monumenti e delle opere d’arte del passato, le attività dedicate a Costituzione e cittadinanza e altro ancora.
Come vogliamo che siano formati i futuri maestri e maestre che dovranno far vivere la storia in classe e fuori? Quanta importanza attribuiamo alla formazione storica di coloro ai quali chiediamo di far nascere la curiosità verso il passato e arricchire il senso e la conoscenza della storia?
Non molta, si direbbe guardando la situazione attuale nei corsi universitari di Scienze della formazione primaria.
Il riordino di questi corsi dopo il ritorno al maestro unico sancito dalla riforma Gelmini del 2009 prevede un certo numero di cosiddetti “crediti formativi” di discipline storiche. In primo luogo, però, il loro aumento da 8 a 16 nel nuovo percorso quinquennale costituisce un rafforzamento solo apparente, dato che l’area storico-geografica rimane debolissima, come tutti gli insegnamenti disciplinari, anche perché si è inopportunamente annullata la distinzione tra scuola dell’infanzia e primaria. Inoltre, pochissime università hanno organizzato corsi integrati dall’antichità al contemporaneo. In alcune gli insegnamenti sono a scelta dello studente, nella maggior parte si impone questo o quello. Calcoli economici, pensionamenti, rigidità burocratiche, diverso inquadramento disciplinare degli insegnamenti, talvolta qualche sospetto e competizione tra settori disciplinari e tra dipartimenti universitari spingono troppo spesso a soluzioni di ripiego.
Possibile che non si possa fare uno sforzo di creatività e di impegno di tutta l’università –dai docenti ai rettori fino al Ministro – per trovare le risorse e offrire una formazione di maggior respiro? Possiamo permetterci, come cittadini e come storici, che sia trascurata la preparazione storica degli insegnanti del primo ciclo?
Non si tratta di immaginare impossibili programmi omnicomprensivi né, viceversa, di distillare nozioni in pillole lungo tutto l’arco della storia universale, ma di creare percorsi stimolanti attraverso i periodi e i temi, di introdurre i futuri maestri ai principali aspetti della ricerca dei vari settori, di presentarne tendenze comuni e problemi specifici, di fornire delle indicazioni e degli strumenti didattici per i diversi periodi per metterli poi in grado di organizzare al meglio la loro attività. Di far vivere la storia con competenza e di guidare i bambini alla scoperta delle loro città, del paesaggio, del patrimonio culturale e storico-artistico.
A questo proposito, è imprescindibile creare una sinergia con le discipline delle arti. Le indicazioni ministeriali individuano nella tutela dei beni storici e artistici una delle finalità principali dello studio della storia a scuola. Gli insegnanti dovrebbero dunque essere formati per questo compito così importante. Tuttavia, se tutti i corsi di scienze della formazione primaria hanno giustamente un insegnamento di storia della musica, solo una minoranza prevede insegnamenti storico-artistici, gli altri privilegiano quello tecnico del disegno. Possibile che non si possa includere entrambi ovunque?
Se, come ricordano le indicazioni ministeriali del 2012, nel nostro Paese “la storia si manifesta alle nuove generazioni nella straordinaria sedimentazione di civiltà e di società leggibile nelle città …nel paesaggio, nelle migliaia di siti archeologici, nelle collezioni d’arte, negli archivi, nelle manifestazioni tradizionali”, la storia e la storia dell’arte sono complementari e si rafforzano mutualmente: attraverso l’osservazione delle tracce materiali del passato i bambini scoprono la storia, e attraverso la storia imparano a capire, amare e tutelare il patrimonio.
Vogliamo creare le condizioni perché ciò sia realtà?
Primi firmatari:
Rosanna Alaggio (Molise), Francesco Bartolini (Macerata), Paola Bianchi (Aosta), Benedetta Borello (l’Aquila), Beatrice Borghi (Bologna), Edoardo Bressan (Macerata), Angela Carbone (Bari), Carlo Felice Casula (RomaTre), Luca Ciancio (Verona), Bonita Cleri (Urbino), Antonio Corda (Cagliari), Carmela Covato (RomaTre), Cinzia Cremonini (Milano Cattolica), Marco Cuaz (Aosta), Fabrizio D’Avenia (Palermo), Giacomo De Cristofaro (Napoli Suor Orsola Benincasa), Maria Pia Donato (Cagliari), Rolando Dondarini (Bologna), Maria Teresa Fattori (Modena e Reggio Emilia), Paolo Favilli (Genova), M. Vittoria Fiorelli (Napoli Suor Orsola Benincasa), Marina Garbellotti (Verona), Angelo Gaudio (Udine), Patrizia Guarnieri (Firenze), Giacomo Jori (Aosta), Erica J. Mannucci (Milano Bicocca), Dino Mengozzi (Urbino), Maria Grazia Montaldo (Genova), Daniele Montanari (Milano Cattolica), Irma Naso (Torino), Walter Panciera (Padova), Sabina Pavone (Macerata), Lavinia Pinzarrone (Palermo), Elena Riva (Milano Cattolica), Paolo Rosso (Torino), Aurora Savelli (Firenze), Olivetta Schena (Cagliari), Gianluca Soricelli (Molise), Carmela Soru (Cagliari), Luigi Tomassini (Bologna), Mario Tosti (Perugia), Michaela Valente (Molise)
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“La formazione degli insegnanti e l’Università: un nuovo slancio è possibile?”, di M.P. Donato
Non più di due settimane fa, il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha ribadito in un’intervista al Corriere Scuola che la priorità delle politiche per l’istruzione deve essere la formazione degli insegnanti. E che ciò che distingue in negativo l’Italia dai paesi avanzati è la scarsa importanza nella preparazione, selezione e aggiornamento dei docenti. Come non essere d’accordo?
Come spesso nel nostro Paese, però, quando si passa dalle dichiarazioni ai fatti, le cose sono più confuse e contraddittorie. La sindrome del moto perpetuo, delle riforme e riformine, contro-riformine, aggiustamenti, decretazione d’urgenza che affligge l’Università italiana, colpisce in modo forse ancor più cronico la scuola, e naturalmente le aree di contatto tra i due mondi come, appunto, la formazione degli insegnanti. Funzione che, diciamolo francamente, l’Università svolge talvolta in modo svogliato, come una fastidiosa appendice, nella non infondata sensazione che, comunque, ogni serio progetto formativo verrà disatteso nel giro di pochi anni dal ministro di turno. E nel sentimento diffuso di futilità, dato che non si risolve –non si vuole risolvere?- la strutturale incongruenza tra percorsi di formazione e sistemi di immissione in ruolo.
Uno dei pochi percorsi che, fino a qualche tempo fa, non soffriva di questa incongruenza erano i corsi di laurea di Scienze della formazione Primaria.
Previsti sin dal 1990 come unico accesso all’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria, ma attivati solo dal 1998, questi corsi quadriennali abilitanti erano ben lungi dalla perfezione ma avevano almeno due meriti. Il primo era la programmazione, con uno stretto coordinamento tra università e direzioni scolastiche regionali. Il secondo, di ordine culturale, era la compresenza di insegnamenti umanistici e scientifici, organizzati in due distinti percorsi mirati alla preparazione di quelle figure docenti complementari che hanno fatto l’eccellenza del nostro primo ciclo di istruzione. Ciò permetteva una preparazione relativamente approfondita di studenti motivati, con una certa attenzione alla didattica che, pur non priva di problemi e di carenze, ha rappresentato un’innovazione non indifferente. In particolare, era proposta l’integrazione tra conoscenze e esperienza didattica in tirocinio nelle ricerche per la tesi, che potevano trovare così un’interessante specificità.
La sindrome del moto perpetuo, però, non ha risparmiato questi corsi.
Com’è noto, la riforma Gelmini del 2009 ha reintrodotto il maestro unico, con il principale obiettivo di una drastica riduzione della spesa (con relativa consistente riduzione dell’orario scolastico). Parallelamente è intervenuta la ristrutturazione dei corsi universitari di formazione primaria.
I nuovi percorsi quinquennali sono stati attivati nel 2011-12. Presentati a livello ministeriale come un salutare ritorno all’insegnamento disciplinare, la filosofia del “di tutto un po’” che li anima sta già mostrando dei limiti. Del resto, la griglia curricolare è rigida quanto basta per impedire percorsi di ampio respiro ma flessibile abbastanza per permettere scelte in funzione della disponibilità di personale. Per dirla in breve, anche nell’organizzazione di questi corsi l’autonomia universitaria appare un principio burocratico e contabile, più che culturale.
E’ evidente che l’Università ha la sua parte di responsabilità, a parte le eccellenze che per fortuna non mancano. Nella programmazione dei corsi, intanto: calati dall’alto dei regolamenti già di per sé discutibili, i docenti, soprattutto quelli “disciplinari” (ossia che non siano specialisti di materie psico-pedagogiche) li hanno per lo più subiti. Questo in un quadro di crescente burocratizzazione, tabelle e tabelline, sollecitazioni delle quasi mitiche “Parti Interessate” (ma non sempre illuminate), vincoli di bilancio sempre più stringenti anche laddove è in gioco la coerenza dell’offerta formativa… insomma, le cose della nostra università come la conosciamo.
Ma una parte di responsabilità vale sul piano culturale più ampio. Si parla molto di crisi dell’Accademia, di perdita di autorevolezza, di scollamento tra sapere e processi decisionali. Senza illudersi che sia la panacea per una crisi che è per molti versi strutturale, credo che sarebbe utile e necessario che almeno si torni, o per meglio dire si diventi, tutti protagonisti nel dibattito su, e nelle scelte per, la formazione degli insegnanti e i contenuti della scuola di ogni ordine e grado.
Un contributo in questo spirito, mi pare, è la lettera aperta firmata da un consistente gruppo di docenti universitari di discipline (in senso lato) storiche nei corsi di Scienze della formazione primaria –alcuni da tempo impegnati nel campo della didattica della storia e dell’arte o altro, alcuni meno, alcuni per niente, ma qui sta il punto- sulla formazione storica dei futuri insegnanti della scuola primaria. Con la volontà di promuovere ulteriori iniziative e approfondimenti.
Non posso e non voglio parlare per i colleghi. Per quel che interessa, personalmente mi motiva la consapevolezza che mi sono distratta troppo e troppo a lungo ho delegato. Col rischio di sembrare un po’ corporativa, mi interessa riflettere sul ruolo della mia disciplina nel corso di laurea nel quale insegno. Mi preme che corrisponda agli obiettivi formativi dichiarati. Penso che da universitaria la scuola mi deve riguardare, non fosse altro per come si formano i futuri insegnanti. E che finora mi sono illusa a credere che la storia possa essere una riserva collettiva di intelligenza della realtà se non ci occupiamo di questo.
da www.roars.it