Pubblichiamo un ampio stralcio dell’intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla Mostra sulla Grande Guerra allestita a Monfalcone (Gorizia).
[…] A cento anni dallo scoppio della Grande Guerra, siamo chiamati come europei e come italiani a un esercizio di memoria collettiva, di condivisione umana, di riflessione storica sulle vicende del nostro paese e dei nostri paesi, sulle vicende del nostro continente del secolo scorso, sulle ragioni e sul percorso del nostro impegno per la pace.
E non attendiamo, qui in Italia, il centenario del nostro intervento nel conflitto, perché sentiamo di dover innanzitutto contribuire, e vogliamo contribuire, a una celebrazione d’insieme, di respiro europeo, che si articoli naturalmente in analisi aderenti alle diverse esperienze nazionali ma non si risolva in una frammentazione asfittica e divisiva.
Le istituzioni europee, e la cultura europea, dovrebbero, tanto per cominciare, evitare un anacronistico riprodursi di antiche polemiche sulle responsabilità cui far risalire lo scatenarsi di quell’immane, sanguinosissimo e distruttivo scontro.
Il punto di partenza di una nostra rinnovata riflessione e analisi critica, dev’essere piuttosto il quadro degli opposti interessi e disegni egemonici che alimentarono l’età non solo dello sviluppo di Stati nazionali in via di modernizzazione, ma dei nazionalismi e delle vecchie e nuove presunzioni imperiali. Non possiamo dimenticare che quelle radici profonde – al di là delle spinte episodiche – del precipitare di tutti gli equilibri storici verso una guerra totale, non furono incise e rimosse negli anni successivi alla dubbia pace del 1918, ma tornarono a operare, in contesti fattisi diversi, condannando l’Europa – e più che mai il mondo, la seconda volta – a un nuovo ancor più spaventoso conflitto.
E’ di lì che viene finalmente una presa di coscienza dell’assoluta necessità di sradicare i nazionalismi aggressivi e bellicisti dando vita a un progetto e concreto processo di integrazione e unità dell’Europa. La riflessione sempre attuale su queste lezioni della storia può e deve essere posta – dovunque negli stessi termini – al centro di commemorazioni unitarie della Grande Guerra nella Unione che oggi raccoglie ventotto Stati membri via via riconosciutisi nelle conquiste di pace e di libertà di cui posero le basi nel 1950 i paesi fondatori dell’Europa comunitaria.
L’assumere quelle conquiste come essenziali e irreversibili – sancite, per quel che riguarda l’Italia, nell’articolo 11 della Costituzione repubblicana – non significa ovviamente svalutare nemmeno per un momento gli sforzi, le prove, le motivazioni, i sacrifici di quanti combatterono in condizioni perfino disumane quella guerra tra europei cento anni fa.
In particolare per noi italiani, il centenario di quel primo conflitto moderno tra Stati europei poi allargatosi a dimensioni mondiali, ci impegna nel modo più naturale a dedicare un commosso ricordo ed omaggio ai nostri combattenti e ai nostri caduti : una moltitudine – questi ultimi – raccapricciante, seicentomila, di cui trecentomila sul solo fronte dell’Isonzo, da Monfalcone a Caporetto, in meno (si è scritto di recente) di cento chilometri quadrati.
Ma accanto al dolore più grande, e al riconoscente omaggio, da esprimere per ogni vita distrutta, per ogni caduto in quella massacrante guerra di oltre tre anni, c’è da tornare sempre, con ammirazione e rispetto, alle sofferenze vissute da tutti i combattenti di prima linea, e alle prove che essi diedero di stoicismo e di senso del dovere e dell’onore nazionale. Sappiamo che allora grandi masse di figli dell’Italia “umile e provinciale”, di contadini bruscamente trasformatisi in fanti, scoprirono di essere cittadini, presero coscienza dell’esistenza di una collettività nazionale, di una patria e di un destino comune.
Vengono in mente versi di Giuseppe Ungaretti che fu l’interprete più sensibile dei drammi della guerra vissuta, vissuta da lui stesso. Ed è datata a Locvizza 1° ottobre del 1916 una poesia, che si chiama Italia, che così si conclude “E in questa uniforme di tuo soldato mi riposo come fosse la culla di mio padre”.
L’Italia uscì in effetti da quella guerra trasformata socialmente e moralmente.
La mia generazione ha fatto in tempo ad attraversare gli anni della seconda guerra mondiale e quel che essa significò di distruttivo per le nostre città e per la nostra società, ma ha anche appreso dai suoi padri il tormento della prima guerra mondiale. Mi si consenta di ricordare la testimonianza di mio padre, ufficiale di complemento al fronte, che scrisse di “quei fanti in trincea, che non si svestivano da mesi e da un momento all’altro dovevano salire alla contesa linea di Monte Valbella”. Ed egli volle, commosso, ricordarli impegnati nella estrema, pietosa mansione di “tracciare scavare comporre, nel luogo che pareva più coperto, tombe per i resti di poveri caduti”.
Grazie ancora e sempre – non manchiamo di dirlo – a quei nostri combattenti il cui umile eroismo assunse molte forme e poi sfociò nelle grandi prove della riscossa dopo Caporetto.
Ecco, queste verità noi dobbiamo ricordare e onorare, senza temere che ciò in qualche modo incrini la nostra adesione al valore di fondo della pace, e senza peraltro dover rinunciare a rispettare altre verità storiche, relative alle responsabilità di alto livello per l’impreparazione con cui l’Italia entrò in guerra guidata dalla fallace illusione di guerra breve. Verità storiche che riguardano anche le responsabilità per la linea di condotta militare, fuorviante da vari punti di vista, che a lungo prevalse nei comandi italiani.La decisione dell’Italia di intervenire, e la sua partecipazione, ebbero peculiari motivazioni nazionali, e al di là di versioni estensive e retoriche degli obbiettivi di liberazione delle regioni di confine rimaste nella sovranità austriaca, non c’è dubbio che il ricongiungimento di Trento e Trieste all’Italia costituì un effettivo motivo di ispirazione risorgimentale per l’impegno e il sacrificio che si richiese al nostro popolo, a tanti suoi umili figli [….]
da www.lastampa.it