Nel trentennale della morte di Berlinguer, non solo un gran libro di un ottimo scrittore, ma un’operazione culturale onesta. Su una generazione che ha deciso di sciogliere la contraddizione tra integralismo etico-politico e la vita reale nella società di tutti.
Nel trentennale della morte di Enrico Berlinguer s’è fatto, detto e scritto un po’ di tutto. Tante agiografie, alcune riletture critiche (da Claudia Mancina la più importante); Veltroni ha filmato l’abisso di consapevolezza tra generazioni, Petruccioli (su Europa) ha individuato nella sconfitta elettorale del ’79 un passaggio cruciale di solito trascurato. Beppe Grillo ha azzardato una grottesca rivendicazione durata il tempo di mezza campagna elettorale.
Nel valore assai relativo che hanno i premi letterari, la vittoria di Francesco Piccolo allo Strega conta come riconoscimento, oltre che a un grande scrittore, all’operazione culturale migliore e più onesta che sia stata fatta sul tema. Non sulla figura di Berlinguer, bensì su quello che il segretario del Pci ha significato per milioni di persone; e, fra quei milioni, per i tanti che a un certo punto hanno accettato di misurare e di sciogliere l’inaccettabile e dolorosa contraddizione tra l’integralismo etico-politico al quale l’icona Berlinguer aveva finito per corrispondere, e la vita e la politica reali, nelle quali è inevitabile anzi giusto condividere le umane mancanze e miserie della società che cambia.
Il desiderio di essere come tutti è stato definito un manifesto renziano. Le solite forzature. Però c’è un senso. La rinuncia a una diversità peraltro spesso più declamata che praticata è condizione per ritrovare la famosa «connessione sentimentale con il popolo». Concetto gramsciano, per stare in tema. Provate a declinarlo nel contemporaneo, pazienza se si perde fascino: darete la giusta importanza agli sforzi della sinistra di parlare finalmente non solo ai propri simili ma, appunto, a tutti.
da www.europaquotidiana.it