Gli elettori si sentono perduti, perdono il senso della partecipazione elettorale, cercano di sperimentare nuovi percorsi che non li convincono. Fanno dei tentativi, in un senso o nell’altro. Monti, Grillo, Renzi, Salvini
Ha fatto bene Ilvo Diamanti (Repubblica del 30 giugno) ad accostare il tifo calcistico alle appartenenze politiche. Ma l’ha fatto in maniera impropria: giustapponendoli, anziché affiancarli. Perché sempre di tifo si tratta, o meglio, di identificazione collettiva, in entrambe le situazioni.
La storia elettorale del nostro paese è vissuta per parecchi decenni di intense contrapposizioni, di radici sub-culturali che sfociavano poi, nel segreto dell’urna, in un classico voto di appartenenza.
L’identificazione con il partito era forte, riempiva la vita, ne era una parte fondamentale: non si poteva fare a meno di votare Pci, o Dc, perché quella era la manifestazione della propria personalità, della propria visione del mondo.
Un mondo fatto di solidarietà con i propri simili, di forte identificazione in un progetto di vita e di relazioni con gli altri, di una forte credenza in un certo tipo di società. Dalla culla alla tomba, si diceva, io sto con il mio partito, che rappresenta le mie istanze nella politica locale e nazionale. Aveva un senso, una funzione essenziale nella costruzione dell’esistenza degli italiani di quel tempo.
Poi, lentamente, poco alla volta, erano subentrati i primi tentativi di fuga da quella gabbia dorata, dalle quotidiane costrizioni del dover essere in un certo modo, del dover seguire una condotta di vita simile ai propri simili: il bisogno di essere diverso, di sentirsi diverso dagli altri. In psicologia, viene chiamato il “bisogno di individuazione”, contrapposto a quello di identificazione, il bisogno di parlare al singolare (io), anziché con il plurale (noi).
Erano i tempi della secolarizzazione, della scolarizzazione di massa, dei primi vagiti del femminismo, tutti movimenti tellurici che cercavano di sottolineare la diversità, l’autonomia, la fine della dipendenza familiare, familistica, padronale, maschile. L’importanza che aveva il partito, nella costruzione della personalità individuale, era sempre più flebile, meno incisiva. Il partito, non la politica. Perché era nel nome di un’altra politica che si cercava di evadere da quelle strette maglie: il personale è politico, si diceva. La rivoluzione delle idee, come la descriveva in quegli anni il “politilogo” Giorgio Gaber.
Poi anche quel nuovo fronte è scemato, a cominciare dalla metà degli anni Ottanta, e lo slogan era diventato, semplicemente: il personale è personale. Ognuno era solo. I partiti erano solo macchine per comprare il potere, per fare soldi, e in una società sempre più frammentata, nessuno si identificava quasi più in nulla, a parte la famiglia (spesso amorale).
Ma essendo tutti così individuati, così solitari, era sorto il problema opposto, quello della mancanza di una forte identificazione collettiva, di un momento in cui ci si sentiva insieme, uniti, “protetti” dalla intemperie del mondo. Per fortuna, in quegli anni, è nato il Berlusconi politico. Dopo un primo istante di interrogazione, molti decisero di stare da una parte o dall’altra, pro o contro il Cavaliere. Accanto al tifo calcistico, unico momento rimasto di identificazione collettiva, con la propria squadra o con la Nazionale, finalmente ne era nato un altro, più serio, più “alto”, che riempiva quella vita solitaria che era diventata la nostra quotidianità. Era nata la fedeltà leggera, e in ogni elezione veniva costantemente ribadita.
Oggi, purtroppo, Berlusconi sta appassendo, almeno politicamente, e gli elettori si sentono perduti, perdono il senso della partecipazione elettorale, cercano di sperimentare nuovi percorsi che peraltro non li convincono abbastanza, o non li convincono affatto. Fanno dei tentativi, in un senso o nell’altro. Monti, Grillo, Renzi, Salvini. Scelte non ancora sentite, scelte ancora provvisorie, astensionismo in ascesa per mancanza di riferimenti forti e coinvolgenti, volatilità elettorale in ascesa.
Ma non durerà molto, come non è durato molto nel post-Tangentopoli. Tra qualche anno, magari tra qualche mese, il bisogno di sentirsi con qualcuno, con un partito, con una forza politica, rinascerà di nuovo. Sarà forse Renzi contro Grillo, o il Pd contro il Movimento 5 stelle, oppure più semplicemente pro o contro Renzi. Sarà forse il territorio contro il centralismo. Quel che sarà. Ma il bisogno di tifare per qualcuno, per qualcuno di “noi” ridiventerà una priorità, ora che anche la Nazionale è così malridotta.
E la volatilità elettorale tornerà a ridimensionarsi. A patto che le forze politiche riescano a presentarsi agli occhi degli elettori come portatrici di una identità, di una visione del mondo inedita e condivisa. A patto che siano credibili, almeno quanto lo era stato, nel bene o nel male, Silvio Berlusconi. Gli italiani non aspettano altro.
da www.europaquotidiano.it