Il ciclone Renzi nei media europei. Nuovo round con i tedeschi previsto per l’autunno quando saranno revisionati i patti di riforma dei bilanci. A Juncker gli italiani proveranno a strappare un impegno sugli investimenti.
In Europa è Renzimania. Un ciclone che si è abbattuto su Bruxelles. Svegliando il vecchio continente, lanciando una nuova Odissea europea, sfidando a recuperare l’anima dell’Europa.
Il giorno dopo l’esordio del premier italiano davanti all’Europarlamento in occasione della presentazione del semestre di presidenza Ue dell’Italia, Renzi campeggia sulle pagine dei principali quotidiani europei (ma non solo) che tra apprezzamenti e critiche scoprono un nuovo protagonista della scena europea.
Se i toni più entusiastici emergono da una lettura dei principali quotidiani francesi (da Le Figaro a Le Monde passando per Liberation), sono i giornali tedeschi – e non poteva essere diversamente visto lo scontro avuto dal premier italiano con il tedesco Manfred Weber, capogruppo Ppe nel parlamento europeo – ad usare il chiaroscuro nel dipingere Renzi.
E così la Sueddeutsche Zeitung, che solo qualche giorno fa aveva dedicato un lusinghiero articolo al premier italiano, oggi in un caustico commento dal titolo “Selfie per l’anima” scrive che «dal sogno italiano per un’Europa migliore si può facilmente arrivare a un incubo europeo», mentre la Frankfurter Allgemeine Zeitung spiega che il motto di Renzi si sintetizza in «più crescita e meno rigore». Stessa musica per l’Handesblatt che però ricorda che Renzi «può agire a testa alta» alla luce del risultato elettorale riportato alle europee, mentre l’International New York Times lo definisce un leader carismatico e riformista che si è messo in rotta di collisione con la Germania ma «ha ricevuto una standing ovation alla fine del suo discorso di Strasburgo».
Tuttavia, lo scontro tra Italia e Germania, che porta alcuni media tedeschi a segnalare come «cristiano-democratici e socialdemocratici sono tutt’altro che uniti sulla politica dei prossimi anni», non dovrebbe produrre effetti sull’elezione di Jean-Claude Juncker a presidente della Commissione europea, nonostante il pressing del Pse ad opera della folta delegazione del Pd sull’agenda del nuovo governo comunitario. Ieri l’ufficio di presidenza del parlamento europeo ha stabilito che gli eurodeputati voteranno Juncker il 15 luglio per evitare la sovrapposizione tra questa votazione, che si svolgerà a Strasburgo, e la riunione straordinaria del Consiglio europeo (la prima sotto la presidenza italiana), che invece è stata convocata per il 16 sera a Bruxelles al fine di decidere sul restante pacchetto di nomine.
Juncker sarà votato a scrutinio segreto e dovrà ottenere la maggioranza assoluta ovvero 376 voti sui 751 eurodeputati. L’accordo è stato raggiunto sia a livello parlamentare che di capi di stato e di governo e, nonostante le defezioni attese sia nel Ppe (gli ungheresi di Orban voteranno contro) che in S&D (a cominciare da molti laburisti britannici), la maggioranza composta da popolari, socialdemocratici e liberali dell’Alde dovrebbe tenere. Il tentativo di vincolare Juncker, quanto possibile, a un’agenda di crescita che è stato l’obiettivo degli italiani è per ora riuscito solo a metà. Anche perché il socialdemocratico Martin Schulz ha agito con grande cautela evitando di forzare la mano anche per assicurarsi l’elezione alla presidenza del Parlamento europeo.
Occorrerà a questo punto verificare quanto Renzi e l’Italia riusciranno a pressare Juncker per vincolarlo quanto meno ad un impegno concreto per politiche dicrescita. Dopo le dichiarazioni “a caldo” del capogruppo S&D, Gianni Pittella, che non ha dato per scontata l’elezione di Juncker, ieri l’eurodeputata del Pd Simona Bonafè si è limitata a dichiarare che «terremo le orecchie dritte su quello che martedì prossimo ci dirà Juncker; vorremmo capire quale sarà l’applicazione della flessibilità concordata dal Consiglio europeo e scritta nelle conclusioni». E ieri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel ricevere la Commissione europea, ha ammonito che occorre combinare «la coerenza dei nostri impegni per il risanamento della finanza pubblica con l’obiettivo diventato ormai imperioso del rilancio della crescita e dell’occupazione».
La strada per insistere su occupazione e investimenti non solo non è affatto preclusa ma, soprattutto, potrebbe essere un buon terreno di incontro e mediazione anche con i tedeschi. Se a Berlino nessuno è disposto a sacrificare il consolidamento di bilancio, il rafforzamento del legame di questo con la crescita potrebbe essere possibile nella misura in cui questo si traduca in un piano europeo per gli investimenti. In Germania, soprattutto negli ultimi anni, molte aziende hanno messo da parte una considerevole liquidità che chiede solo di essere impiegata in tutta sicurezza, di qui la richiesta lanciata da Markus Kerber direttore della Confindustria tedesca (Bdi) per finanziamenti di progetti infrastrutturali attraverso la capacità di attrarre capitali privati. Si potranno magari rispolverare formule come i project bond, ma non si andrà molto più in là.
Il vero scontro, di cui mercoledì a Bruxelles si sono viste solo alcune schermaglie, arriverà però solo in autunno quando proprio nei mesi del passaggio del testimone nella Commissione gli europei si riuniranno per rivedere il two-pack e il six-pack. La revisione, prevista già con l’introduzione di questi accordi, dovrà essere discussa nell’europarlamento ed è fin d’ora possibile prevedere che ci saranno scintille fra le grandi famiglie europee, ma anche tra Germania da un lato e Francia e Italia dall’altro.
Sarebbe tuttavia un errore ritenere che i tedeschi siano oggi isolati in Europa: la saldatura tra le istanze rigoriste dei paesi del Nord con quelle di Spagna, Portogallo e Irlanda (costretti a chiedere aiuto in questi anni, a sottomettersi alla troika e che quindi non vedono di buon occhio le “scorciatoie” di Francia e Italia) è nei fatti e le rimostranze di questi ultimi sono state fatte proprie dallo stesso capogruppo del Ppe Weber dopo che erano state messe sul piatto nel vertice dei popolari tenutosi prima del Consiglio di Ypres.
Non a caso ieri l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi ha avvertito che serve una nuova alleanza per cambiare la cura ad un’Europa malata da anemia. Se l’Italia è l’unica a chiedere il cambiamento, dice Prodi, non si va da nessuna parte mentre se fosse in compagnia di Francia e Spagna la musica potrebbe cambiare.
Accanto a ciò, è bene non dimenticarlo, c’è il dossier delle nomine che in questi giorni si intreccia fittamente con l’agenda dell’esecutivo. Ieri Juncker ha incontrato a Bruxelles il presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy nel quadro della preparazione della sua squadra di governo che dovrà tenere conto di sottili equilibri come destra-sinistra ma anche uomini-donne e delle differenze geografiche come nord-sud ed est-ovest.
Se il Ppe ha già ottenuto la presidenza della Commissione con Juncker, i socialisti potrebbero avere il Consiglio europeo ma non si mettono d’accordo sul nome visto che con il passar dei giorni aumentano le perplessità sulla prima ministra danese Helle Thorning-Schmidt e, stando alla Sueddeutsche Zeitung, la candidatura di Enrico Letta sarebbe bloccata da Renzi, che invece ne ha smentito l’esistenza. Qualora il Pse non riuscisse a decidere, il Ppe sarebbe pronto ad chiedere la poltrona per un suo esponente.
Per l’alto rappresentante per la politica estera, che in base ai trattati dovrà essere concertato con Juncker, in pole position vi sarebbe l’italiana Federica Mogherini sebbene salgano le quotazioni della bulgara Kristalina Georgieva del Ppe, che dalla sua avrebbe non solo il fatto di essere già commissaria e per giunta dell’Est (a cui non spetterebbe altrimenti altro portafoglio di peso) ma anche di essere particolarmente gradita all’amministrazione americana.
Il nodo tuttavia ancora da sciogliere resta quello del supercommissario economico che, chiesto dal PPe, dovrebbe riunire la poltrona di commissario agli affari economici e presidente dell’eurogruppo. Una poltrona che Juncker avrebbe promesso al giovane ex premier finlandese Jyrki Katainen (molto apprezzato dalla Merkel) che si sarebbe dimesso in aprile per sostituire il connazionale Olli Rehn già nella commissione Barroso. Qualora Katainen non divenisse eurocommissario l’eurogruppo sarebbe presieduto dal conservatore spagnolo Luis de Guindos.
Insomma il puzzle delle nomine è tutto in salita, mentre l’Italia porta a casa nell’europarlamento la presidenza della Commissione affari economici e finanziari e di quella cultura che andranno a Roberto Gualtieri e Silvia Costa del Pd. A Giovanni La Via (Ncd) andrà la guida della Commissione ambiente.
da europaquotidiana.it