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“Allarme clima. Per il Pentagono è il nuovo nemico”, di Anna Zafesova

Uragani e carestie al centro dei war games dei generali Usa. Le nuove guerre saranno scatenate da fattori “ambientali”. Non solo russi, cinesi, iraniani, arabi e coreani. Nella lista dei nemici potenziali dell’America accanto a loro oggi sono apparsi tifoni, carestie, alluvioni, cicloni, tsunami. Il deserto che avanza e il ghiaccio polare che si scioglie vengono catalogati come minacce accanto a Bin Laden e Kim Jong-il. Attacchi missilistici delle potenze nucleari, codici militari violati, Stati-canaglia che rubano l’atomica, terroristi islamici che complottano per colpire le città dell’Occidente: gli incubi che per anni hanno affollato le menti degli strateghi del Pentagono non sono più questi. O almeno non solo. Forse perfino peggiori di quelli della guerra fredda, perché con la natura non si può trattare e non si può mandare una squadra di superaddestrati marines a eliminare l’effetto serra.

E’ una nuova guerra mondiale. Da quest’anno il Pentagono e il Dipartimento di Stato Usa catalogano il clima come una delle minacce alla sicurezza nazionale americana. Esperti di intelligence e analisti studiano i calendari dei monsoni e le siccità in Africa. Di recente sono state svolte simulazioni di «war games» su disastri indotti dai cambiamenti climatici, utilizzando sofisticati programmi di simulazione del clima usati dalla Marina e dall’Aviazione, insieme alle ricerche della Nasa e dell’Amministrazione nazionale per l’Oceano e l’Atmosfera. Un’esercitazione «virtuale» alla National Defense University ha affrontato il «modello» di un’alluvione devastante nel Bangladesh: centinaia di migliaia di profughi spinti dall’acqua in India, già sovrappopolata, facendo scoppiare incendiari conflitti per il territorio, scontri tra genti di religioni differenti e diffondendo malattie contagiose importate dalla zona del disastro, con conseguente crollo delle già fragili infrastrutture dell’area. Uno scenario alquanto probabile che, nella simulazione, «diventa subito estremamente complicato», dice al New York Times Amanda J. Dory, che lavora con il gruppo del Pentagono incaricato di inserire nell’agenda della sicurezza nazionale le minacce derivanti dal cambiamento climatico.

Che sono tante e inesorabili. Cicloni e siccità possono scatenare pandemie e carestie che spingono a migrazioni di massa, milioni di persone in fuga, a combattere per risorse elementari come il cibo e l’acqua, che all’improvviso diventano drammaticamente insufficienti per tutti. Situazioni nelle quali sguazzerebbero movimenti terroristici ed estremisti di varia natura, tragedie che alimenterebbero nazionalismi violenti e guerre religiose, facendo vacillare governi di mezzo mondo. Secondo i «war games» svolti dal Pentagono e le ricerche delle agenzie di intelligence americane, già oggi si possono delineare le aree maggiormente a rischio nei prossimi 20-30 anni per questi sconvolgimenti «clima-dipendenti»: l’Africa sub-sahariana, una delle zone più popolate e povere del mondo, il Medio Oriente, dove gli antichi conflitti politico-religiosi potrebbero ricevere nuova linfa dalla mancanza dell’acqua e dall’esplosione demografica, e il Sud-Est asiatico, dove centinaia di milioni di persone vivono sotto la spada di Damocle di violenti terremoti, tsunami e uragani.

Pericoli ormai considerati inesorabili: anche se i diversi negoziati sul cambiamento climatico porteranno alla drastica riduzione delle emissioni di gas serra, il meccanismo già avviato di riscaldamento globale rischia comunque di produrre delle conseguenze nei prossimi decenni. E così dai tentativi di prevenzione si passa ai più pragmatici piani per affrontare emergenze inevitabili. Sia da un punto di vista umanitario – l’esercito e l’aviazione americana studiano piani per ponti aerei e interventi urgenti in caso di disastri naturali e migrazioni di massa – che da un punto di vista strategico. Milioni di persone senza casa, senza mezzi di sostentamento e senza cibo, in fuga da uno tsunami o da un’epidemia possono diventare un pericolo sociale e politico, e quindi anche militare. E il moltiplicarsi delle emergenze umanitarie in giro per il mondo, avverte il National Intelligence Council, rischia di impegnare risorse militari destinate alle attività belliche vere e proprie.

L’innalzamento del livello dei mari cambia già oggi lo scenario di eventuale guerra, mettendo a rischio diverse postazioni americane. Alcune basi dell’aviazione in Florida sono state distrutte o danneggiate dagli ultimi uragani, e il livello dell’oceano in aumento costringe a riprogettare le basi navali a Norfolk e San Diego. Ancora più a rischio è la base a Diego Garcia, l’atollo nell’oceano Indiano snodo cruciale per le forze americane e britanniche in Medio Oriente. L’isolotto è praticamente a livello del mare, e potrebbe venire sommerso se le previsioni sull’innalzamento degli oceani si avverassero. Lo scioglimento dei ghiacci apre invece un «buco» nelle difese polari: nella calotta artica si apre un canale navigabile che richiedere la revisione di tutti i piani strategici di diversi Paesi.

Un esempio di guerra «clima-dipendente» esiste già, dice al New York Times John Kerry, ex candidato democratico alla presidenza e oggi, da presidente del Comitato per le relazioni internazionali del Senato, capofila di questa nuova battaglia ecologico-strategica. E’ il Sudan meridionale, dove la siccità e la crescita dei deserti ha ucciso o costretto alla fuga decine di migliaia di persone, producendo un conflitto per ora senza soluzione: «E’ un’esperienza destinata a ripetersi, e su scala sempre più vasta», dice il senatore, che per conto di Barack Obama si appresta a convincere il Senato ad approvare il pacchetto di leggi sul clima e l’energia già votato a giugno dalla Camera. Userà, tra gli altri, il nuovo argomento della minaccia strategica derivante dal mercurio in inarrestabile aumento. L’altra alleata di Obama è Hillary Clinton, che da senatrice aveva autorizzato, nel 2008, modifiche al budget del Pentagono per includere i cambiamenti climatici nei piani strategici.

Ci sarà per la prima volta una sezione dedicata al clima nel suo rapporto sulla Difesa che uscirà a febbraio, e il Dipartimento di Stato – oggi guidato proprio da Hillary – farà altrettanto nel suo rapporto su diplomazia e sviluppo. Diverse agenzie di intelligence stanno studiando i vari risvolti del cambiamento climatico, anche a livello delle singole nazioni, per capire se i vari governi riusciranno a reggere la pressione di calamità naturali che producono terremoti sociali, economici e umani. «Dovremo pagare per il cambiamento climatico, in un modo o in un altro», dice il generale Anthony C. Zinni. «O pagheremo per ridurre le emissioni di gas serra, con ripercussioni economiche. O pagheremo il prezzo più tardi, in termini di impiego militare, e di vite umane».
La Stampa 10.08.09