Un benessere fragile, poco equo, perciò difficilmente sostenibile. È il quadro che emerge dal secondo rapporto, appunto, sul Benessere equo e sostenibile preparato dall’Istat e dal Cnel sulla base di 134 indicatori distribuiti su 12 aree rilevanti per il benessere degli individui e la tenuta della società.
È un benessere fragile, non solo perché non si vede ancora la fine della crisi, l’occupazione continua a diminuire e la povertà, specie tra i minori, i giovani e le loro famiglie tende ad aumentare. Anche i miglioramenti che pure ci sono stati, ad esempio sul piano dell’istruzione, con l’aumento dei diplomati e laureati, o nell’utilizzo delle nuove tecnologie, sono insieme troppo lenti per colmare il gap con gli altri paesi europei, che anzi continua ad allargarsi, e non sostenuti da investimenti in ricerca e innovazione che consentano di valorizzarli. È un benessere poco equo perché la crisi ha rafforzato le disuguaglianze tradizionali nel nostro paese — a livello territoriale e di classi sociali — e ne ha create di nuove. La disoccupazione ha colpito più duramente il Mezzogiorno delle altre ripartizioni. Sempre nel Mezzogiorno si trova la massima concentrazione di Neet, di giovani che né studiano né lavorano: un terzo circa di tutti i giovani in quelle regioni, dove è anche stata più intensa la diminuzione della partecipazione ad attività culturali. Si è, inoltre, interrotto il lento processo di riduzione delle disuguaglianze territoriali nelle condizioni di salute che svantaggiano, ancora, chi risiede nel Mezzogiorno. Al persistere di meccanismi di forte riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza si aggiunge il più recente fenomeno di una disuguaglianza intergenerazionale a sfavore dei più piccoli e dei più giovani. Ciò non è avvenuto perché le generazioni più anziane hanno viceversa migliorato la propria condizione. Piuttosto, a fronte di una crisi che, sul piano occupazionale, ha colpito soprattutto i più giovani e le famiglie giovani, l’unica categoria sociale per cui è stata prevista una ga-
ranzia di reddito è quella degli anziani con pensioni basse, tramite il mantenimento dell’indicizzazione, appunto, della pensione.
Tendenze contraddittorie emergono nelle disuguaglianze di genere. A fronte di un indubbio aumento delle donne nei posti decisionali, in politica e nei consigli di amministrazione, per moltissime donne le difficoltà di conciliare responsabilità famigliari e una occupazione remunerata sono peggiorate: riduzione di servizi già scarsi e aumento dei costi rendono per molte difficile tenersi un lavoro già insicuro di suo. È aumentato, così, il divario tra tasso di occupazione delle madri di bambini in età pre-scolare e donne senza figli, quindi non solo la disuguaglianza tra donne e uomini, ma anche tra donne.
Quanto può essere sostenibile nel mediolungo periodo un benessere così fragile, così poco equo, così disattento al proprio capitale — umano, ambientale, culturale? Una prima risposta problematica viene dagli indicatori sulle relazioni sociali e la fiducia. Si conferma la forza delle reti famigliari: l’89,8%, in aumento rispetto al 2009, dichiara di avere qualcuno su cui contare in caso di bisogno. Ma diminuisce la soddisfazione per le relazioni famigliari e amicali. Se si aggiunge che gli italiani mostrano uno dei più bassi tassi di fiducia verso gli altri tra gli abitanti dei paesi Ocse, ne emerge un quadro di persone chiuse in cerchie famigliari e amicali sottoposte a tensioni crescenti, poco disponibili a fidarsi di altri, quindi a impegnarsi per qualche obiettivo comune. È diminuita anche la partecipazione al volontariato. La bassa fiducia riguarda soprattutto i partiti e le istituzioni politiche. Il che non vuol dire, come spesso troppo affrettatamente si conclude, disinteresse per la politica. Il desiderio di informarsi e discutere di politica è anzi aumentato. Trasformarlo in coinvolgimento, in fiducia critica, è la sfida che confronta la politica e il governo innanzitutto, ma anche tutti coloro le cui azioni e decisioni sono di enorme rilevanza per la vita di tutti noi. Un buon punto di partenza sarebbe utilizzare gli indicatori alla base di questo rapporto come riferimento sia per definire le priorità dell’agenda delle cose da fare sia per valutare l’efficacia delle azioni intraprese
da La Repubblica