Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha un senso molto andreottiano dell’ironia. Ma non c’era malizia quando ha scelto Ypres, un luogo entrato nella mitologia delle glorie militari britanniche, per ospitare il vertice che registra la più bruciante sconfitta di Londra in quarant’anni di battaglie europee. E forse segna l’inizio del processo di fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue.
Il lungo e inutile massacro di Ypres durante la Prima Guerra Mondiale non ebbe nè vincitori né vinti. La battaglia delle nomine che vi si è svolta ieri tra i capi di governo europei, e che si concluderà oggi a Bruxelles, delimita invece con grande evidenza chi ha vinto e chi ha perso. Sul fronte dei vincitori ci sono Angela Merkel, Matteo Renzi e il Parlamento europeo. Su quello degli sconfitti troneggia il premier inglese David Cameron.
La Merkel conferma il proprio ruolo di asse portante dell’Europa. Nella battaglia delle nomine era partita male, costretta a rinunciare al potere assoluto dei capi di governo per condividere la scelta del presidente della Commissione con i partiti politici e il Parlamento europeo. Ha esitato a lungo prima di accettare la designazione di un candidato del Ppe, che è stato l’ultimo tra le forze politiche a indicare il proprio campione. Ma alla fine ha scelto Jean-Claude Juncker. E dopo le elezioni lo ha difeso contro attacchi di ogni genere fino a riuscire ad imporlo nonostante il veto britannico, la freddezza dei socialisti e le perplessità di molti governi.
Ma la Cancelliera non si è fermata qua. E’ stata lei a sbloccare la trattativa tra Ppe e Pse, accettando l’elezione di Martin Schulz a presidente del Parlamento europeo in cambio dell’appoggio degli eurodeputati socialisti a Juncker. E’ riuscita a confermare il commissario tedesco Oettinger sulla poltrona cruciale dell’Energia, che nel prossimo quinquennio sarà forse il portafoglio più strategico dell’intera Commissione. Inoltre si presenta oggi come il vero «king maker» per le altre cariche di vertice della Ue: quella di presidente del Consiglio europeo e quella di Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Poltrone che vedono tra i possibili candidati due italiani: Enrico Letta e Federica Mogherini.
Anche Matteo Renzi era arrivato alla battaglia delle nomine in una posizione difficile. L’Italia resta un sorvegliato speciale in Europa per i suoi conti pubblici e per un debito totalmente fuori dai parametri del Patto di stabilità. I continui avvicendamenti alla guida del governo non avevano contribuito ad aumentare la nostra
credibilità in vista del semestre di presidenza italiana che si apre a luglio. Ma il trionfo alle elezioni europee ha cambiato le carte in tavola, dando al premier italiano una legittimazione politica che non ha eguali in tutta l’Unione. Inoltre Renzi si è mosso con abilità spostando il dibattito dai nomi dei candidati al programma della
prossima Commissione e guadagnando una apertura di credito, almeno teorica, per una politica di bilancio più flessibile. Nel lungo mese di negoziati dopo le elezioni, il leader italiano è riuscito di fatto a soppiantare il presidente francese Hollande, bastonato dal voto, come punto di riferimento per il fronte dei socialisti europei. Con
simili risultati, potrebbe già considerarsi soddisfatto. Se poi portasse a casa una delle due poltrone di vertice ancora da assegnare potrebbe vantare anche un nuovo primato affiancando un secondo italiano a Mario Draghi tra i quattro o cinque massimi dirigenti dell’Ue.
Ma il vero vincitore della battaglia delle nomine è senza dubbio il Parlamento europeo. Grazie al paziente lavoro del suo presidente Martin Schulz, l’assemblea di Strasburgo oggi di fatto è l’arbitro delle sorti della Commissione e ha sottratto ai capi di governo il potere di nomina del presidente dell’esecutivo comunitario. Era, questo, un vecchio sogno democratico dei padri fondatori dell’Europa, in particolare di Jacques Delors, che pareva irrealizzabile.
David Cameron esce dalla battaglia di Ypres come il grande sconfitto. Se nella notte non si troverà un accordo per evitare lo scontro in extremis, oggi si voterà per designare Juncker alla testa della Commissione e Cameron sarà messo in minoranza. La sua minaccia di portare Londra fuori dall’Europa non ha funzionato. Dopo aver condizionato (in peggio) con i suoi veti la nomina di almeno due presidenti della Commissione e del presidente del Consiglio europeo, la Gran Bretagna perde il potere di ricatto sull’Ue che ha esercitato per quarant’anni frenando il processo di integrazione.
Di fronte alla sconfitta, Cameron non si tira indietro e alza i toni dello scontro. Lo fa per motivi di politica interna, pressato com’è dagli indipendentisti dell’Ukip che lo hanno sonoramente battuto alle elezioni. Ma una condizione di guerra dichiarata tra la Gran Bretagna e l’Unione europea potrebbe alla fine fare il gioco dei rivali del premier conservatore, accelerando davvero il processo di uscita del Regno Unito dall’Ue. E questo trasformerebbe la sconfitta di Cameron in una catastrofe di proporzioni storiche.
La Repubblica 27.06.14