“GLI uomini della ‘ndrangheta non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”. Le parole di papa Francesco fanno entrare la Chiesa in una nuova era.
LE ha pronunciato in Calabria non a Roma. Le ha pronunciate sapendo che sarebbero arrivate forti e chiare. È andato a confortare i parenti di Cocò il bambino di tre anni ucciso con un colpo in testa e bruciato a Cassano allo Ionio. Un bambino ucciso è la prova oggettiva e definitiva della menzogna “d’onore” dei mafiosi. Bergoglio, ricordando questo bambino massacrato, non ha avuto bisogno di dimostrare con altre parole la barbarie del potere criminale. Ha annullato con un gesto la menzogna con cui la ‘ndrangheta si autocelebra come società d’onore e di difesa di deboli, poveri, e come distributrice di giustizia, lavoro e pace sociale.
Qualcuno potrebbe credere che sia naturale e scontato per la Chiesa ricordare un bambino ammazzato e bruciato, e denunciare i colpevoli. Ma purtroppo non è così. Ecco cosa disse il parroco di Cassano, don Silvio Renne, qualche tempo fa in un’intervista a Niccolò Zancan: «Ancora Cocò? È una storia chiusa. Abbiamo fatto il funerale. Io non sono un investigatore. Non spetta a me dire chi è stato. E poi è ancora tutto da dimostrare se c’entra la droga o la ‘ndrangheta…».
Per Papa Francesco non è storia chiusa e non teme di dire che i colpevoli sono i mafiosi. Tenere fuori dalla cristianità gli affiliati, dichiararlo in Calabria è atto di coraggio, non è scelta retorica, non è disquisizione teologica. La scomunica è parola smarrita nel tempo, pena del diritto canonico che ha perduto il senso drammatico e spesso persecutorio che ha avuto dal IV secolo sino alla fine dello Stato della Chiesa. Ma oggi diventa invece il gesto più fortemente simbolico possibile per estromettere dalla cristianità le organizzazioni mafiose, per tagliare i legami che tante volte hanno stretto con le parrocchie locali. Le parole del Papa tuonano come dichiarazione finale, e denunciano senza scampo la menzogna dei mafiosi che si autoproclamano cattolici e fedelissimi alla Chiesa di Roma. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato — il 9 maggio del 1993 ad Agrigento — un attacco durissimo alla mafia: «Convertitevi, verrà il giudizio di Dio». Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.
Ma poi l’impegno antimafia dei vertici ecclesiastici sembrò affievolirsi delegando tutto ai preti definiti di “frontiera” o di “strada” a seconda della moda giornalistica.
Ora, invece, se la Chiesa vuole essere conseguente e non ripetere gli errori del passato, deve far seguire a questa scomunica una serie di comportamenti fondamentali, come il rifiuto delle donazioni dei mafiosi; l’allontanamento dopo accertamenti e condanne dei preti considerati conniventi; la creazione di una commissione antimafia in seno alla Chiesa che possa vagliare indipendentemente dalle autorità di polizia il rapporto, l’estensione della scomunica ai politici, imprenditori che si considerano cattolici e che hanno relazioni con le organizzazioni criminali.
La scomunica è un’arma potente perché nella logica abnorme della narrazione mafiosa il legame con la religione è fondante: c’è tutta una ritualità distorta che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la «santina», l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. La dirigenza gerarchica massima della ndrangheta è definita “santa” al cui interno un grado superiore si chiama “vangelo”.
Il potere è considerato un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima mette a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”. La Madonna viene vista come la mediatrice
tra l’uomo costretto al peccato e suo figlio Gesù che attraverso di lei comprende che quell’effrazione è stata fatta a fin di bene, in una mondo di peccati ed ingiustizie. I sacramenti stessi sono usati per consolidare i legami mafiosi. In passato, quando nasceva un maschio, il giorno del battesimo gli veniva messo accanto un coltello e una chiave: se il bambino toccava il coltello era destinato all’“onore” se toccava la chiave a diventare sbirro. Ovviamente la chiave veniva sempre messa distante.
Tra i motivi che portarono alla morte di don Peppino Diana ci fu la sua acerrima lotta ai clan che volevano sfruttare i sacramenti come viatici alla cultura camorrista. La ‘ndrangheta è struttura completamente permeata dalla cultura cattolica. A Polsi il 2 settembre al santuario della Madonna in Aspromonte i capi si riunivano mischiandosi ai fedeli per dare nuove investiture e costruire alleanze, siglare patti. Non a caso l’”albero della scienza” metafora della struttura ndranghetista si trova proprio vicino al santuario.
Le storie di intreccio tra chiesa e ‘ndrangheta sono moltissime. Le chiese sono state usate come territorio di negoziato fra i clan: durante una messa nel 1987 la vedova del capo assoluto degli “arcoti” Paolo De Stefano, ammazzato dal “nano feroce” Antonino Imerti, chiese la fine di una delle faide più cruenti della storia criminale internazionale. Ci sono stati sacerdoti accusati di complicità: come Don Nuccio Cannizzaro, parroco di Condera accusato dall’antimafia di falsa testimonianza a difesa del sistema ndranghetista dei Crucitti e Lo Giudice. O don Salvatore Santaguida prete di Vibo Valentina accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nel 2009 la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del Papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia. Desta scandalo il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ‘ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.
La chiesa che ha portato il Papa a pronunciare queste parole non è solo la chiesa dei martiri, ma la chiesa di tutti quei preti che in territori difficilissimi e tormentati rappresentano l’unica via possibile al diritto, l’unica strada alla dignità laddove lo stato spesso è solo manette e sequestri di beni, dove non c’è alternativa tra emigrare o vivere nella totale disoccupazione. In Calabria don Giovanni Ladiana e don Giacomo Panizza sono tra gli esempio di chiesa che si fa prassi di resistenza, non semplice simbolo antimafia, ma creazione di una via possibile al diritto al conforto, alla condivisione, al futuro.
Questa scomunica è solo l’inizio di un percorso che potrà risultare epocale.
da la Repubblica