Jean-Claude Juncker non è il presidente della Commissione che avremmo voluto: Candidato dei partiti popolari e conservatori, è stato uno degli artefici della politica di austerità. Eppure se, come tutto lascia pensare, il Consiglio dei capi di governo della prossima settimana designerà Juncker alla presidenza, vanificando per la prima volta il veto britannico, questa nomina si caricherà di un contenuto democratico e di una valenza innovativa tutt’altro che disprezzabili. Juncker – e con lui il socialista Schulz, il liberaldemocratico Verhofstadt, la verde Keller, il leader della sinistra radicale Tsipras – si sono presentati agli elettori europei come concorrenti per la guida della Commissione, condividendo l’interpretazione più federalista del nuovo Trattato di Lisbona (che attribuisce al Parlamento di Strasburgo non più la ratifica ma l’«elezione» del presidente). L’elezione di Juncker, in quanto rappresentante del partito europeo con maggiori consensi, darebbe implicitamente alla Commissione un carattere più politico (meno «tecnico») e lo stesso Europarlamento verrebbe rafforzato da quel legame democratico con l’organo esecutivo dell’Unione.
Cameron si è opposto a Juncker proprio per contrastare ogni tentazione federale e affermare il vincolo intergovernativo delle istituzioni europee. Non è una novità per i britannici. John Major nel ’95 pose il veto sul belga Dehaene e da una successiva trattativa uscì il nome di Santer: la sua Commissione fu tra le più grigie e finì ingloriosamente con le dimissioni. Tony Blair nel 2004 pose il veto sul liberale Verhofstadt, perché era appunto un federalista, e spinse il negoziato a favore di Barroso, che aveva condiviso con Londra la catastrofica guerra in Iraq. La Gran Bretagna vuole da sempre una Commissione debole, un presidente debole, un Parlamento europeo che parli senza decidere alcunché. Ora Cameron è inseguito da mille problemi inter- ni, a partire dalla crescita del movimento xenofobo e anti-europeo di Farage che sta minando la base elettorale dei Tory. Ma il Trattato di Lisbona ha tolto alla Gran Bretagna il potere di veto. Neppure con svedesi e ungheresi Cameron sarebbe in grado di comporre la minoranza di blocco per impedire la designazione di Juncker. Avrebbe potuto avere successo solo se Renzi gli avesse dato supporto. Ma il premier italiano ha fatto bene a non assecondarlo. Non si tratta di spingere fuori la Gran Bretagna dall’Unione, prospettiva che nessun europeista può coltivare, tuttavia i Paesi dell’euro, soprattutto loro, non possono più restare nel guado: c’è una evidente correlazione tra l’Europa dei soli governi e l’Europa dell’austerità, del rigorismo cieco, della tecnocrazia. Gli elementi di democrazia europea, per quanto piccoli e talvolta simbolici, sono invece gli alleati naturali dei programmi di crescita, di riequilibrio, di sviluppo. Londra può restare nell’Ue anche senza euro. Ma non può impedire all’area-euro di rafforzarsi e integrarsi, non può costringerla a restare imprigionata tra i veti intergovernativi.
Per questo Renzi è stato bravo anche nell’impostare il negoziato sulle cariche europee. Prima i contenuti poi i nomi, ha detto. Questa strategia gli ha consentito di sottrarsi al pressing di Cameron (e forse al desiderio della Cancelliera di scaricare sull’Italia la responsabilità dell’eliminazione di Juncker). E oggi dà al nostro premier maggior forza nel negoziato sul documento di indirizzo, che il Consiglio dovrebbe varare insieme alla designazione del nuovo presidente. Un documento nel quale l’Italia cercherà di inserire segni di discontinuità, impegni per lo sviluppo, politiche per ridurre gli squilibri interni. Ovvia- mente anche il Parlamento dovrà poi dire la sua. I gruppi euroscettici non possono diventare l’alibi di un’ulteriore stallo: perché sarebbe la fine dell’Europa. Certo, a Strasburgo sarà inevitabile un’intesa tra i partiti maggiori. Non potrebbe essere altrimenti, visti i numeri e il sostanziale equilibrio tra governi di centrodestra e di centrosinistra. La retori- ca contro le larghe intese europee è solo un modo per fuggire dalla realtà. La vera partita è tra sviluppo e austerità, tra canoni intergovernativi e spirito comunitario, tra Nord e Sud: ma lo scontro attraversa i partiti più grandi e proprio qui si decide il destino dell’Europa. Chi desiste dalla battaglia cruciale, dà una mano ai Le Pen e Farage.
Il presidente della Bce è italiano e sta facendo bene. La presenza di Draghi impedirà, con ogni probabilità, candidature italiane al vertice di altre istituzioni. Ma Renzi può negoziare comunque posizioni di grande responsabilità nella Commissione, e non solo. Per varie ragioni l’Italia oggi è più forte, non ultima il successo elettorale del Pd a fronte della crisi di tanti partiti al governo in Euro- pa. Bisogna pensare in grande. Sarebbe riduttivo trattare nomine solo per ottenere vantaggi settoriali, o per logiche di scambio. Non serve a nessuno l’Italietta. Possiamo, dobbiamo ambire invece a trainare l’Unione, a creare nuovi orizzonti. Nomine italiane per cambiare rotta all’Europa. Come l’Alto rappresentante per la politica estera oppure il commissario per gli Affari interni, la sicurezza e l’immigrazione. Questo corrisponde all’interesse nazionale: del resto, la svolta dell’Europa non passa solo dalle direttive economi- che, ma da un nuovo modo di stare nel Mediterraneo, dall’assumere la frontiera Sud co- me frontiera dell’Europa, dal cambiare le politiche di immigrazione, dal costruire un nuovo rapporto con la Russia. Grillo e la Lega, finiti con l’estrema destra, proveranno a minacciare il governo, ma Renzi ha la forza per rilanciare e non inseguire nessuno sulla via del minimalismo europeo.
L’Unità 21.06.14