L’aggettivo va usato con cautela, perché il futuro della politica italiana può riservare sempre clamorose sorprese, ma questa volta è giusto definire l’accordo sulla riforma del Senato, annunciato ieri sera, davvero come «storico».
Viene colpito, infatti, un principio fondamentale di quella Costituzione nata dopo la caduta del fascismo e la nascita della nostra Repubblica. Il cosiddetto «bicameralismo perfetto», una soluzione quasi unica nelle strutture degli Stati di moderna democrazia nel mondo, che fu scelta in quel momento proprio perché si voleva garantire la massima parità di competenze e di prestigio istituzionale fra le Camere e un rigoroso controllo reciproco dei poteri in un Parlamento che doveva assumere l’assoluta centralità nella politica del Paese.
Ora si è deciso, dopo più di mezzo secolo d’esperienza democratica, che all’esigenza di un più rapido percorso legislativo, più adeguato alle necessità dei tempi e più corrispondente a quella volontà dei cittadini di una riduzione del peso della politica nella nostra vita pubblica, fosse ormai opportuno il sacrificio di tale principio.
All’importanza della svolta costituzionale si devono aggiungere alcune considerazioni politiche più contingenti, ma non da sottovalutare, non solo perché potrebbero intralciare la definitiva approvazione di questa riforma, ma anche perché ne potrebbero compromettere l’efficacia, proprio rispetto ai fini che si vogliono raggiungere.
Il provvedimento, infatti, dovrebbe mettere ordine e risolvere i numerosi conflitti di poteri, di funzioni, di responsabilità nati dalla sciagurata riforma del cosiddetto «Titolo V» , una legge che, varata per strumentali esigenze di bassa politica elettorale, ha causato una confusa sovrapposizione di competenze tra istituzione centrale e istituzioni regionali e locali. Il rischio è proprio quello che oggi, per gli stessi compromessi tra partiti, durante l’iter parlamentare venga meno la necessità di fare chiarezza su questo punto fondamentale della struttura dello Stato.
Le incognite, poi, sono anche altre e attengono al modo con cui si è arrivati all’accordo. Il cosiddetto «patto del Nazareno» tra Renzi e Berlusconi è stato indubbiamente confermato da questo annuncio d’intesa, ma le vicende giudiziarie del leader di Forza Italia, tutt’altro che esaurite con un affidamento ai servizi sociali legato al filo delle sue esternazioni e all’esito dei futuri processi, potrebbero avere conseguenze anche sull’esito finale della riforma.
C’è, poi, la variabile più a sorpresa, quella dell’inserimento di Grillo nel percorso di tale legge. Se è vero che il leader dei «5 stelle» sembra arrivato fuori tempo massimo per un’adesione che non sia meramente aggiuntiva all’intesa tra i due fondatori della riforma, è anche vero che il gioco degli emendamenti, con la comprovata spregiudicatezza tattica alle Camere di quel «Movimento», potrebbe riuscire ad alterare il faticoso equilibrio raggiunto ieri sera.
Non bisogna trascurare, infine, che il successo del presidente del Consiglio conseguito con questo primo passo per la riforma del Senato può essere rivendicato comprensibilmente, sia nei confronti dei cittadini, ansiosi di una riduzione della cosiddetta «casta» e dei costi della politica, sia in sede internazionale, alla vigilia del semestre di guida italiana alla Ue. Ma è solo propedeutico al varo di un’altra riforma, certo meno «storica», ma più determinante per il futuro di Renzi e del suo partito, quella della legge elettorale. E, se in politica fosse permesso sbilanciarsi in previsioni, si potrebbe scommettere che «il patto del Nazareno» dovrà sopportare una prova ben più ardua.
da La Stampa