Nel 2007 l’obbligo di istruzione è stato innalzato di due anni. Si è trattato di una iniziativa largamente attesa, perché in una società ad alto sviluppo otto anni di istruzione obbligatoria erano veramente pochi, stante lo sviluppo di quelle competenze di base estremamente necessarie per qualsiasi processo lavorativo.
In effetti nella società della conoscenza la tradizionale separatezza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale si sta attenuando sempre più rapidamente, e non c’è attività che non richieda anche conoscenze di base di alto profilo. In seguito all’innalzamento dell’obbligo, ci si aspettava che il tradizionale diaframma tra scuola media, dove la prossima settimana si svolgeranno gli esami conclusivi, e istruzione secondaria superiore si andasse via via attenuando e che la verifica delle competenze di cittadinanza e delle competenze culturali acquisite dagli studenti, puntualmente definite nel dm 139/2007, e debitamente coordinate con quanto richiesto dall’Unione europea a tutti i sistemi scolastici degli Stati membri, costituisse il vero momento terminale di dieci anni di studi obbligatori.
Ma questa attesa non si è mai realizzata. Le ragioni di tale insuccesso sono almeno tre: a) le difficoltà che hanno incontrato le istituzioni scolastiche di secondo grado nel progettate i percorsi del primo biennio di studi obbligatori assicurando quella «equivalenza formativa» prevista dal citato dm, la quale avrebbe dovuto permettere di superare la tradizionale diversità dei tre ordini; b) il fatto che sono state indicate modalità per la procedura certificativa molto approssimate; c) il fatto che la certificazione stessa viene rilasciata solo a domanda dell’interessato.
Inoltre, sarebbe stato opportuno rivedere la stessa normativa relativa all’esame di Stato conclusivo della scuola media, in quanto questa non costituisce più il momento terminale dell’obbligo di istruzione. É opportuno rilevare che la Costituzione prevede che al termine di un ciclo di istruzione vi sia un esame di Stato. Però, a tutt’oggi il primo ciclo di istruzione, per norma, non si conclude a 16 anni di età, cioè a conclusione dell’obbligo di istruzione, come sembrerebbe opportuno, ma ancora al termine della scuola media. Tali carenze, da un lato, vanificano l’ innalzamento dell’obbligo di istruzione, dall’altro contribuiscono ad attribuire all’esame di terza media un valore terminale che in effetti non dovrebbe più avere.
In tale situazione, l’esame di terza media continua a rivestire un’importanza e un valore che invece dovrebbero essere trasferiti alla reale conclusione dell’obbligo di istruzione. Ma così non è, per cui tra alcuni giorni gli alunni della scuola media continueranno ad affrontare un esame lungo e complesso!
Si tratta di ben cinque prove scritte disciplinari e di un colloquio pluridisciplinare. Tra le prove scritte figura quella nazionale proposta dall’Invalsi, che «fa media» con le altre. Il profilo dell’esame è, quindi, eccessivo rispetto al fatto che il diploma di terza media oggi non ha più alcun effetto legale, stante l’avvenuto innalzamento dell’obbligo di istruzione.
La prova Invalsi riguarda due discipline, l’italiano e la matematica. E qui sorge un interrogativo: non sono sufficienti le prove di italiano e di matematica amministrate dalle scuole? Un alunno potrebbe superare la prova della scuola e non quella dell’Invalsi o viceversa. Non costituisce quindi questa prova un doppione e una invasione di campo? Forse lo Stato non si fida delle sue istituzioni scolastiche? Alle quali, però, ha riconosciuto l’autonomia, didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo. E sono le medesime istituzioni che «individuano inoltre le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale» (dpr 275/99, art. 4, c. 4).
E ancora: le prove Invalsi – quando ben fatte, e non sempre lo sono – sono predisposte sulla base di criteri misurativi e valutativi che hanno a monte i suggerimenti di una ricerca docimologica di grande spessore, anche transnazionale. Si tratta di una «cultura della valutazione» che, a partire dagli anni Settanta, in un clima di profondo rinnovamento, avviammo con una serie di provvedimenti che miravano a rinnovare in profondità la didattica di tutti i gradi e gli ordini di scuola. Ma, a partire dal Terzo millennio, questa strada è stata interrotta. Basti pensare a quel ritorno ai voti decimali che spazzò via anni e anni di ricerca finalizzata ad attivare nuove strategie valutative.
Pertanto, oggi, ci troviamo di fronte a un profondo divario: da un lato c’è un Invalsi che, in materia di valutazione, interviene a gamba tesa su tutte le nostre scuole, perfino a modificare gli esiti di un esame di Stato, le cui commissioni sono di fatto sottoposte ad una sorta di regime di vigilanza; dall’altro ci sono le nostre scuole che in materia di valutazione ancora si cimentano con prove e criteri valutativi lontani anni luce dalle proposte imposte dall’Invalsi. Ora si prospetta anche l’eventualità che la terza prova pluridisciplinare degli esami di Stato conclusivi del secondo ciclo di istruzione sia affidata all’Invalsi. In tal caso le commissioni di esame gestirebbero «in proprio» solo il colloquio. E’ noto che, tra le sei tipologie proposte alle commissioni per la confezione della terza prova, queste scelgono la prima e la seconda, considerate «più facili» rispetto alle altre. Anche in questo caso va sottolineato il fatto che confezionare una terza prova_ ben fatta, non è affatto una cosa semplice, e richiede tempi e competenze che a volte le commissioni non hanno. Anche in questo caso, a mio avviso, il problema non è intervenire pesantemente a sottrarre compiti agli insegnanti commissari, ma «attrezzarli» perché possano produrre una terza prova con quella competenza che essa richiede ed esige.
Sarebbe invece necessario sospendere per un lasso di tempo disteso (un biennio?) la somministrazione delle prove Invalsi e attribuire invece, all’istituto, all’Indire e a chi ne abbia competenza il compito di intervenire sulle istituzioni scolastiche e sugli insegnanti affinché si impadroniscano di quella cultura della valutazione della quale c’è una grande necessità. Quando il divario tra le competenze dell’Invalsi e quelle dei nostri insegnanti sarà colmato, solo allora le prove Invalsi saranno ben accette.
già ispettore Miur
da Italia Oggi 17.06.14