A volte i simboli accecano. Paradossalmente, soprattutto a guardarli da lontano. Certo, è impossibile tenere a freno l’emozione, all’annuncio della riapertura della Biblioteca Nazionale di Bosnia ed Erzegovina, la Vijesnica bruciata nel 1992 sotto i bombardamenti di una notte di
agosto.
Oltre due milioni di volumi perduti, l’epopea dei cittadini che lavorarono settimane sotto il fuoco per mettere in salvo quel che restava delle collezioni, la storia del poliziotto Fahruddin Cebo, che portò al sicuro una preziosa Haggadah ebraica del XV secolo, l’immagine malinconica e severa di Vedran Smajlovic in frac che si ostinava a suonare il violoncello fra i calcinacci: la Biblioteca divenne subito un simbolo. Di ciò che nella tragedia di questa città stava andando perduto, non solo per la Bosnia, ma per l’umanità. Un marchio in stile neomoresco da imprimere nelle coscienze di tutto il mondo. Ovvio quindi che la riapertura suoni come un risarcimento. Costaton18 anni di lavori, 11,5 milioni di euro e tanto scrupolo filologico: «Abbiamo lavorato — racconta l’architetto capo Ferhad Mulabegovic — incrociando vecchie foto e documenti ritrovati a Sarajevo, Zagabria e altre città. E per ricreare lo stile turcheggiante abbiamo dovuto cercare artigiani dai saperi dimenticati ». Eppure alla cerimonia per l’annuncio della riapertura spicca l’assenza di Ismet Ovcina, il direttore della Biblioteca, che dichiara: «Non accettiamo di tornare da ospiti in casa nostra, dopo esserne stati cacciati a colpi di proiettili incendiari » . Ospiti: perché il Consiglio della Città si è appropriato dell’edificio per usarlo a scopi di rappresentanza, e alla Biblioteca viene offerto soltanto un minuscolo spazio, simbolico, inadeguato anche per una collezione insignificante. Il Consiglio si fa forte della destinazione d’uso di epoca austroungarica, che assegnava lo stabile al Municipio, mentre Ovcina si appella agli accordi di Dayton che, a fine
guerra nel 1995, prevedevano la restituzione degli immobili distrutti.
Da simbolo a “brand” il passo è breve: si preparano le elezioni, e la Biblioteca, come le vittime delle alluvioni di metà maggio, passa nel tritacarne della propaganda mentre i cittadini sanno che Vijesnica, non riaprirà mai. Va perso un simbolo multiculturale? «Ma quale multiculturalità?» l’artista Zoran Herceg si inalbera: «Qui c’è sempre stata una sola cultura, quella bosniaca, resa ricca da mille influenze. Le tre tradizioni sono un racconto expost, che puzza di nazionalismo. Meglio chiusa: ora sarebbe solo un simulacro gestito da un potere inaffidabile. Chi selezionerebbe i volumi in un paese dove a scuola si usano libri di storia diversi a seconda dell’appartenenza nazionale? ».
E il nazionalismo torna a farsi ingombrante in vista del 28 giugno, San Vito, data dell’inaugurazione ufficiale (ma il giorno dopo verrà chiusa di nuovo per inagibilità), inquadrata nelle celebrazioni per il centenario dell’attentato che diede il via alla prima guerra mondiale: «Non sfilerò davanti a una lapide che definisce aggressore il popolo serbo!», tuona il premier serbo Aleksandar Vuèiæ, che invece in un primo tempo aveva accettato l’invito delle autorità bosniache. Festeggerà il suo San Vito ad Andricgrad, la nuova Disneyland neo-tradizional-nazionalista di Emir Kusturica a Visegrad.
In questo clima potrebbe finire per sempre la storia della
Biblioteca, sequestrata due volte: dalle bombe e dalla politica politicante. Ma lo spirito cosmopolita che quella storia incarnava è vivo: si è solo trasferito sulla riva opposta della Miljacka, in un magazzino del vecchio Centro Olimpico dove, fra trucioli e pallet stanno, fintamente accatastate in un allestimento provvisorio di grande efficacia, decine di opere dei più grandi artisti contemporanei. È Ars Aevi, “arte dell’epoca”, qualcosa che cambierà la storia della città.
Molti giornalisti ricordano l’uomo gentile che nel 1992 li avvicinava all’Holiday Inn per esporre il suo sogno: «Di guerra non parlava. Solo del museo che voleva costruire», racconta il fotoreporter Mario Boccia, «pensavamo fosse un po’ matto ». Era Enver Hadziomerspahic, direttore degli eventi culturali alle olimpiadi del 1984 e direttore di Ars Aevi, il gentiluomo che ora mi accoglie sotto la pioggia e mi offre una maglietta di ricambio: «Sarei a disagio a lasciarla con la camicia bagnata». E racconta una storia che sarebbe incredibile, se non fosse testimoniata da una collezione del valore di almeno 20 milioni di euro: «La notte in cui fu distrutto il Museo Olimpico mi venne l’idea di chiedere ai massimi artisti del mondo di donare opere per Sarajevo. Una follia, dato che in città nessuno sapeva neanche se si sarebbe svegliato la mattina dopo».
Ma il sindaco Kresevljakovic ci credette e riuscì a portare Enver in Italia per promuovere l’iniziativa alla Biennale di Venezia ‘93. Le risposte furono superiori alle aspettative: con Enrico Comi, direttore di “Spazio Umano” a Milano, Enver ideò la serie di esposizioni le cui opere sarebbero andate ad Ars Aevi. Taglio cosmopolita: in ogni mostra opere di artisti di almeno dieci paesi. Dopo Milano arrivarono le massime istituzioni artistiche europee con le collettive di Lubiana, Venezia, Vienna, Istanbul, per citarne solo alcune, che portarono opere, fra gli altri, di Pistoletto, Kounellis, LeWitt, Kapoor, Viola, Boetti, Beuys: quanto basta a togliere il fiato al visitatore che in mezzo al truciolato capisce di trovarsi in un secondo Guggenheim, in grado di sottrarre l’immagine di Sarajevo all’accostamento con sangue e guerra.
Enver incassa poi anche il patrocinio Unesco, il sostegno del governo italiano e l’entusiasmo di Renzo Piano, che progetta gratuitamente il nuovo museo destinato a sostituire il “magazzino concettuale”: i lavori partono quest’estate e in quattro anni sarà aperto al pubblico il primo modulo. C’è già un partner privato: l’italiano Illy. «È anche una storia vostra», dice Enver. Molte delle opere usciranno dal magazzino per «invadere la città», una è destinata proprio a Vijesnica, come una specie di vendetta: arte al posto dei libri scacciati.
In fondo è una storia ben sintetizzata nel motto di Ars Aevi, una frase del 1793 di rabbi Avigdor Pawsner: «Se cerchi l’inferno, chiedi la strada a un artista. Se non trovi artisti sei già all’inferno». Un perfetto biglietto da visita per la città irriducibile che oggi archivia con una risata i tanti reporter che continuano a rappresentarla fotografando le buche dei proiettili e il minareto allineato con il campanile, e guarda altrove.
La Repubblica 16.06.14