L’autolesionistica battaglia persa sull’oro, per puro e insensato “arditismo” finanziario, è un paradigma del logorante declino politico cui l’esecutivo e la maggioranza di centrodestra si stanno condannando. Il “non expedit” della Bce sulla tassazione delle riserve auree della Banca d’Italia è qualcosa di più dell’inevitabile mannaia calata sulle velleitarie forzature del nostro ministro dell’Economia. Rappresenta, plasticamente e simbolicamente, l’inappellabile bocciatura di un metodo di governo fondato sullo strappo delle regole, più che sulla produzione di riforme. Sul salto nel cerchio di fuoco, più che sulla soluzione dei problemi. Sulla rappresentazione propagandistica, più che sull’azione pratica.
È stata una mossa allo stesso tempo arrogante e disperata. Che senso aveva inserire a tutti i costi in un decreto, già di per sé discutibile per forma e per contenuto, una norma palesemente contraria al Trattato Europeo, e quindi naturalmente illegittima anche rispetto alla Costituzione italiana? Che senso aveva esporre il Paese al giudizio negativo di un’importante istituzione comunitaria, che aveva già formalmente espresso in due diverse occasioni la sua netta opposizione giuridica rispetto alla famigerata Golden Tax? Nessun senso. Né economico: 300 milioni di gettito, per un Paese con un debito pubblico di 1.700 miliardi di euro, sono una goccia nel mare.
Né diplomatico: la speranza di portarsi dietro qualche altra cancelleria, su una crociata ideologica che minaccia l’autonomia delle banche centrali in un’Europa tuttora tedesco-centrica, è una pia illusione.
Eppure Berlusconi e Tremonti hanno voluto marciare lo stesso, contro il buon senso di Giorgio Napolitano e il dissenso di Jean Claude Trichet. In nome del “presidenzialismo di fatto” che il premier ha ormai introiettato nella sua inimitabile epopea leaderistica, dove non c’è posto per gli altri poteri repubblicani, per le istituzioni di controllo, per gli organi di garanzia. In nome del “populismo di comando” che il suo mago dei numeri ha ormai incarnato nella lotta ai tecnocrati e ai banchieri, dove non solo i Profumo e i Passera ma anche i Mario Draghi vengono implicitamente additati ai cittadini come “nemici pubblici”.
Questa cronaca di una sconfitta annunciata la dice lunga sulle reali condizioni del Cavaliere e del suo Pdl. Forte dei suoi consensi bulgari, si era illuso di gestire il Paese come una sua televisione, e di comandare il governo come un consiglio di amministrazione. Ora l’asprezza della crisi economica e lo squilibrio dei conti pubblici, insieme alle sue disavventure personali e alle sue avventure sessuali, gli presentano il conto. Con tutta evidenza, Berlusconi sta perdendo il controllo della sua maggioranza. È un animale ferito, piagato dalla scandaleide pubblico-privata che non lo molla e che la stampa internazionale gli ricorda ormai tutti i giorni. E come la muta dei cani nella caccia, i suoi stessi alleati sembrano sentire l’odore di quel sangue. E lo tormentano, lo braccano, lo assediano. La Lega di Bossi e Calderoli, che al Nord detiene tuttora la “golden share” della coalizione, ormai ne inventa “una al giorno”, per dirla con le parole del Secolo d’Italia. I “clientes” Lombardo e Micciché, che al Sud battono cassa in vista della sfida sul federalismo, paiono solo momentaneamente placati dall’assegno di 4 miliardi staccato dal Cipe una settimana fa. Ma ormai i rubinetti si sono aperti: oggi reclamano i siciliani, domani toccherà ai pugliesi, dopodomani ai calabresi e poi ancora a chissà quali altri cacicchi locali.
Tremonti ha capito l’antifona. E gioca a suo modo la guerra di potere che si scatena alle spalle del premier. Profilandosi come un leader a tutto tondo, capace di elaborare pensiero oltre che di gestire denaro. Di parlare ai popoli, in Italia e in Europa, contro tutte le nomenklature, autoreferenziali e irresponsabili. Chiudendo i cordoni della borsa ai ministri rivali, ma aprendo le porte dei “board” ai suoi uomini: alla Cassa Depositi e Prestiti, alla futura Cassa per il Mezzogiorno, alla prossima Banca per il Sud. Poco importa se, in questo conflitto sotterraneo, si perde qualche battaglia, come è successo sulla Golden Tax. L’importante è aver piazzato un’altra “bandierina” ideologica e demagogica, nel grande risiko del centrodestra in lenta decomposizione. Ormai, per chi ragiona già in una logica post-berlusconiana, quello che conta è vincere la guerra finale. Anche questo ci dice, la “disfatta di Francoforte”. Durerà ancora, chissà quanto. Ma il dopo Berlusconi, forse, è già cominciato.
La Repubblica, 7 agosto 2009