Alla fine tutto torna. I risultati del secondo turno delle comunali, combinati con gli esiti del primo, mandano un messaggio forte e chiaro. Vince chi cambia. Chi propone facce nuove e programmi che appaiono credibili. E quanto più i partiti tradizionali riescono a rinnovarsi nella leadership e nei messaggi, a proporre candidati che segnano uno scarto rispetto alla deriva nostalgica in cui i due poli principali si erano chiusi negli ultimi anni, tanto più i movimenti di protesta come il M5S si sgonfiano, derubati della loro stessa essenza, battuti sul loro stesso terreno.
L’elettore fluttuante con cui abbiamo imparato a fare i conti dalle elezioni politiche di un anno fa, non lo freghiamo più. Non basta la nostalgia. Né il rimpianto o la malinconia. Perché l’elettore infedele è anche brutale. Il giovane non vota più come gli dicono i genitori, la moglie se ne infischia dei suggerimenti del marito, e il marito decide di testa sua, non c’è collega o amico che tenga.
Questa fondamentale (e banale) legge della politica, particolarmente pregnante in un’Italia ancora assediata dall’antipolitica, ha riguardato tutti e tre i principali partiti.
Nel caso del Pd, il grande impatto è stato prodotto dal cambiamento della leadership. Il nuovo Pd a guida Renzi ha stravinto praticamente dappertutto, conquistando 160 comuni sopra i 15.000 abitanti rispetto ai 37 del centro-destra e 19 capoluoghi rispetto ai 5 del centro-destra. Un successo molto netto al Nord, ma anche al Centro – dove il leader post ideologico e post comunista si è paradossalmente ripreso tutta la zona rossa – e al Sud.
Per la prima volta nella storia del centro-sinistra, il leader traina di più dei suoi candidati sindaci. Nel passato era esattamente il contrario. La differenza di voto tra le europee e le amministrative era costantemente negativa; -2,4% nel 1999 contro il 3,7% di Forza Italia, -5,3% nel 2004 e -0,1% nel 2009 (dati Cattaneo, Valbruzzi). Nel 2014 tutto si ribalta e la differenza di voti tra europee e comunali diventa positiva, addirittura +5,9%. Matteo-il-veloce comincia a veleggiare molto al di sopra dei suoi (ben più lenti) candidati sindaci, esattamente come avveniva con Berlusconi, di gran lunga più forte dei suoi dirigenti locali.
Lo scontro tra vecchio e nuovo è ugualmente visibile nel caso del M5Stelle e nel risultato-shock di Livorno. Livorno come Parma. Dove tutti, ma proprio tutti, si sono schierati contro il candidato della (vecchia) ditta, anche se giovane, ma con un cursus honorum tutto interno alla federazione-apparato. Dalla sinistra intransigente, ai perenni oppositori del centro-destra passando per la diocesi, tutti con l’ingegnere grillino sconosciuto alla politica. Anche al Vescovo non deve essere parso vero; dopo 68 anni di sindaci «compagni» si cambia direzione, addirittura con un candidato cattolico. E così Monsignor Giusti manda un’accorata lettera di congratulazioni al sindaco-cittadino, promettendogli sostegno e vicinanza. Un fronte unito e compatto contro la continuità. Un sospiro di sollievo per Grillo; c’è ancora spazio per il suo esercito di ingegneri e tecnici informatici dalla faccia pulita, soprattutto laddove la politica si ostina ad essere sempre uguale a se stessa.
Ma al di là dei casi di Parma-Livorno, tanto emblematici quanto isolati, rimane il fatto che è il centrodestra post-berlusconiano il vero competitore del Pd a livello comunale. Che già oggi può farcela, contro il Pd, dove riesce a tirare fuori i suoi molti elettori potenziali dal frigorifero, giocando anche qui su candidati nuovi ed efficaci, e presentandosi ricompattato e unito (Perugia e Padova).
Nonostante dunque il basso tasso di partecipazione, sotto al 50%, gli elettori sono sempre più attenti alle specifiche caratteristiche dei candidati. Il Pd in questa fase ha interpretato al meglio le aspettative con un nuovo leader ancora in piena luna di miele. Non è invece altrettanto veloce la rottamazione del partito; anzi, la vecchia guardia e le vecchie correnti sono state tutte incamerate nella gestione del partito e del governo, con una spartizione quasi matematica degli incarichi. Questo, e lo si è già cominciato a vedere tra le pieghe di questa consultazione, prima o poi potrà rivelarsi un elemento di rallentamento e di fragilità della «rottamazione» renziana.
La Stampa 10.06.14