In un colloquio che avemmo lo scorso mese di marzo, parlando del peccato Papa Francesco mi disse la frase che qui riferisco letteralmente: «I peccati del mondo sono l’ingiustizia e la prevaricazione. Io li chiamo concupiscenza, cupidigia di potere, desiderio di possesso. Questi sono i peccati del mondo e dobbiamo combatterli con tutte le forze di cui disponiamo».
Questi peccati indicati da Papa Francesco si servono di alcuni strumenti per esser commessi, il principale dei quali si chiama corruzione. Si tratta certamente di peccati del mondo ma in Italia sono più diffusi che altrove, anche se non sempre vengono a galla.
Vent’anni fa scoppiò lo scandalo che fu chiamato Tangentopoli. Sembrava che fosse riuscito a bonificare la palude della corruttela pubblica, i suoi miasmi e il malaffare che ne derivava. I partiti più implicati e gli imprenditori più compromessi furono travolti. Tutto era cominciato nel 1992 e fu sull’onda del malcontento popolare abilmente cavalcato che ebbe inizio il berlusconismo. Certo non volevano questo i magistrati che avevano sperato d’aver liquidato il malaffare, ma sta di fatto che il frutto che uscì da Tangentopoli era ancor più velenoso di quelli che c’erano stati prima.
La differenza — se questa parola vogliamo usarla — consiste nel fatto che all’epoca di Tangentopoli lo scandalo consisteva almeno per il 70 per cento in denari trafugati per finanziare i partiti e solo il 30 (e forse anche meno) finiva nelle tasche dei mediatori.
COL berlusconismo le cose cambiarono e la refurtiva finì interamente in tasche private. Moralmente si tratta di una differenza assai poco percettibile ma comunque oggi è peggio di ieri. Quelli che allora erano i mediatori, gli affaristi, gli intermediari in tasca ai quali finivano gli spiccioli adesso lavorano in proprio col potente di turno. Si sono formate lobby delinquenziali, mafie d’alto bordo e le abbiamo viste al lavoro nella (mancata) ricostruzione de L’Aquila, nella scandalosa gestione della Protezione Civile di Bertolaso e soci, negli appalti all’isola della Maddalena, nell’Expo di Milano e infine, proprio in questi giorni, nella più bella e più pestilenziale laguna del mondo. Lo scandalo del Mose è probabilmente il più eclatante, non tanto per l’ammontare delle cifre che pur sono assai consistenti, ma sicuramente per la quantità e la qualità delle persone coinvolte. Ci sono, come hanno scritto nei giorni scorsi i nostri inviati, squali, piranha e pesci piccoli. Sono compromessi il sindaco della città, gli azionisti del consorzio Venezia Nuova che è l’unico concessionario dell’opera, il direttore generale del predetto consorzio, un generale che fu comandante della Guardia di Finanza e perfino — perfino — il magistrato della Corte dei Conti distaccato in quella città. Il partito più rappresentato in questa schiera di corrotti-corruttori è, ovviamente, Forza Italia e Galan che fu tra i fondatori scelto per il Veneto — vedi caso — da Dell’Utri; ma anche il Pd è nel novero perché il sindaco non è un iscritto al partito ma la sua lista fu sponsorizzata dai democratici. Era molto stimato dal Patriarca che infatti lo aveva insignito del titolo onorifico di Procuratore di San Marco. Che volete di più?
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La corruzione in quanto reato si combatte in tre modi e in tre momenti distinti: la prevenzione, l’inchiesta, la punizione dei colpevoli, esattamente come si combattono tutte le malattie. L’altra sera l’ex procuratore di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, ha lamentato, nel corso della trasmissione “Otto e mezzo” l’assoluta mancanza di prevenzione. Non esiste ancora una vera ed efficace legge contro la corruzione, sono state anzi varate in questi anni le turpi leggi ad personam che sono uno dei frutti devastanti del berlusconismo ed hanno abolito il reato di falso in bilancio, ridotto il periodo di prescrizione, non istituito il reato di riciclaggio e via numerando; leggi che non solo non contrastano ma facilitano e incentivano la corruzione. Massimo Giannini, su questo giornale di giovedì scorso, ha esaminato dettagliatamente la mancanza di prevenzione e le cause imperdonabili del ritardo dei governi; berlusconiani prima e post-berlusconiani poi, ma pur sempre condizionati dalle “larghe intese” e perfino dalle “piccole intese” succedute (o affiancate) alle precedenti. Evidentemente non è chiaro l’ordine di priorità dei provvedimenti dei quali il nostro paese ha maggior bisogno. Sono: la creazione di nuovi posti lavoro, l’incentivazione di nuovi investimenti, un moderno sistema di ammortizzatori sociali, la prevenzione della corruzione.
Tutto il resto viene dopo perché non serve né a rilanciare la crescita né ad attutire la rabbia sociale. Quando lo scandalo del malaffare emerge i fatti ovviamente sono già avvenuti, le Procure e i giudici operano quando il reato è già stato consumato. È il lavoro preventivo che può evitare che sia commesso, un deterrente ben studiato e ben formulato in norme di legge. Qualche tentativo fu fatto ma venne stravolto in Parlamento e i governi non seppero impedirlo perché i sabotatori erano inseriti nei posti di comando e impedivano che i motori venissero accesi come si sarebbe dovuto fare.
Urge che un intervento decisivo venga immediatamente effettuato con priorità assoluta se non si vuole resuscitare un grillismo mettendo di nuovo in gioco la democrazia che è uscita rafforzata dalle recenti elezioni europee.
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Se le cose vanno in questo modo forse è necessario allargare
un poco il nostro quadro mentale; forse non basta parlare di governi e di parlamenti insidiati da contrasti interni e di insufficiente o addirittura mancante lavoro di prevenzione; forse bisogna parlare del cosiddetto popolo sovrano.
Quasi il 40 per cento del nostro popolo sovrano si è astenuto dal voto nelle ultime elezioni. Il 20 o anche il 30 per cento di astensione è fisiologico, ma al di là di questo limite no, saremmo e siamo davanti a un evento che va guardato con attenzione.
Se poi osserviamo i votanti che scelgono movimenti e partiti e leader populisti, cioè demagoghi che promettono e non mantengono o addirittura fanno il contrario di ciò che a parole hanno promesso, allora è segno che quel popolo sovrano ha abdicato dalle sue funzioni. Del resto nella terminologia dell’economichese anche il debito pubblico si chiama sovrano. Popolo sovrano, debito sovrano: non vi sembra un gioco da bambini in cerca di sciarade?
Purtroppo è una dura e cruda verità. Questa mattina a Napoli dove mi trovo al festival della Repubblica delle Idee, discuterò anche di queste questioni con Roberto Benigni.
Francamente non potrei trovare un interlocutore più adatto: Benigni è un comico di eccezionale cultura, che mette la sua comicità a servizio della conoscenza e proprio per questo avrò (e avranno quelli che lo ascolteranno) molto da imparare da lui.
Lo anticipo con dei versi d’un poeta — Trilussa — che anche lui metteva il cosiddetto popolo sovrano allo specchio affinché si guardasse e si emendasse se possibile. Di questi versi avevo già parlato tempo fa, ma ora trascrivo il brano finale della poesia (romanesca) intitolata “L’incontro tra li sovrani”. Mi sembra quanto mai attuale. Leggete, divertitevi ed emendatevi se
c’è bisogno di farlo.
« Stai bene? Grazzie. E te?
e la Reggina? Allatta.
E er Principino? Succhia.
E er popolo? Se gratta.
E er resto? Va da sé…
Benissimo! Benone!
La Patria sta stranquilla; annamo a colazzione…
E er popolo lontano, rimasto su la riva, magna le nocchie e strilla: Evviva, evviva, evviva…
E guarda la fregata sur mare che sfavilla » .
La Repubblica 08.06.14